lo spiegone è servito Valerio M. Visintin Se il mestiere non mi imponesse soste forzate alle tavole dell’alta ristorazione, sceglierei comunque di bruciare centinaia di euro in quei sacri scrigni. Non tanto per amor del cibo – che è un’incognita giocata fra tradizione, innovazione e frustrazione –, ma per godere di quel momento di poesia che gli scienziati dell’arte culinaria hanno chiamato “spiegone dei piatti”. È da sempre un passaggio obbligato. Ma negli ultimi anni ha assunto sviluppi narrativi più complessi e più fondanti urgenze. In primo luogo, perché le preparazioni hanno maturato esiti arcani e imprevedibili. E poi perché, nelle cucine moderne, niente di quel che ci viene servito è frutto di una nostra consapevole scelta. Lo chef ha gradualmente sottomesso la clientela, relegandola a semplice destinataria dei suoi capricci. Talvolta, mascherando l’imposizione con la geniale formula del “menu degustazione”. Che ha l’efficacia di un cavallo di Troia nel cuore del nostro libero arbitrio. Sempre più spesso, imponendo lo sfacciato imperio del menu alla cieca. Pratica che mi ricorda il menu misterioso del refettorio scolastico tra le ombre della mia infanzia. Non sapendo quel che arriverà, ci aggrappiamo all’umanità del personale di sala. Ma lo “spiegone dei piatti” è anch’esso una prova d’autore, che ognuno interpreta a suo modo. Di solito è il maître a prendersi in carico l’onore. Mentre i camerieri consegnano i prelibati cibi, egli drizza la schiena, schiarisce la voce e decanta: “Qui, abbiamo figli di androcchia con pesto di nargìco al budolone 4mila gradi, concassé di erga sanma in nove cotture, rigaglie di saltapicchio picchiò bienfullé. E pollo fermentato al vapore”. C’è un preciso calcolo nell’enunciazione, io credo. Soltanto il principio e la fine debbono essere percepibili e intelligibili per l’orecchio umano. È un dettaglio essenziale nella delicata economia dello spiegone. Perciò, gli specialisti di questa particolare disciplina fanno attenzione a sistemare termini di comune comprensione strategicamente all’inizio e alla fine dell’epitaffio. E a rimarcarli con voce grossa e piena. I commensali più acerbi sorridono incerti, strizzando istintivamente gli occhi per tentare di afferrare le parole. Ma è un esercizio vano. Al termine, sapranno di avere nel piatto dei figli di qualcosa e del pollo fermentato al vapore. Il resto è notte fonda. D’altra parte, è anche vero che gli autentici habitué dei ristoranti di questa cilindrata hanno capito l’andazzo e fingono di essere all’ascolto, mentre pensano alla squadra del cuore, all’amante, alla firma in calce su un contratto milionario. Di norma, il direttore di sala, soddisfatto, augura buon appetito e corre a sghignazzare in un recesso del locale. Se, però, l’incauto avventore si lascia prendere dall’uzzolo di una domanda, il meccanismo si inceppa come se avessimo tirato un sasso tra gli ingranaggi. Sono rari atti di audacia. Il cliente osserva timidamente la sua portata e azzarda, con un mezzo ghigno colpevole: “Scusi, se non ho capito male, c’è del pollo… ecco… non lo vedo, dov’è?…”. Due le possibili risposte. Quella generica e segreta, pronunciata con tono paternalistico: “Signore, è nell’involucro del bienfullé!”. Ma accade con maggior frequenza che, dopo aver scrutato il vostro piatto, il maître indichi una infinitesima lacrimuccia color cavigliera, posta al margine estremo della porcellana: “Eccolo, signore”. Mi ritengo fortunato. Grazie al mio impegno professionale, ho potuto coltivare un approfondito studio sullo “spiegone del piatto”. So, per esempio, che qualche ristorante d’altissimo rango retribuisce un dipendente per quell’unico, esclusivo scopo. “La signora ha perlinato al tornone, leggera sanisuàs di Portino e caglioni di palta marinati, sofisti di caccasecca e gini, black macigno. E pollo fermentato al vapore.” Sono individui abilitati soltanto a questo genere di monologhi. Non possono toccare una stoviglia, né prendere comande. Se qualcuno li interrompe, ripartono dal principio, come i centralini automatici dell’Enel. Mi domando se, per deformazione professionale, si comportino allo stesso modo anche in famiglia o con gli amici. So anche che, in ragione di questa inderogabile pratica, i grandi chef hanno sempre guardato con disappunto alle tavolate numerose, a rischio di ordinazioni diverse. La litania dello spiegone durava troppo, raffreddando le pietanze e causando qualche fulminante letargia. Ecco la vera ragione per la quale, ormai, in calce al menu degustazione scrivono sempre: “Vale per tutto il tavolo”.