Se il mestiere non mi imponesse soste forzate alle tavole dell’alta ristorazione, sceglierei comunque di bruciare centinaia di euro in quei sacri
scrigni. Non tanto per amor del cibo – che è un’incognita giocata fra tradizione, innovazione e frustrazione –, ma per godere di quel momento di poesia
che gli scienziati dell’arte culinaria hanno chiamato “spiegone dei piatti”.
È da sempre un passaggio obbligato. Ma negli ultimi anni ha assunto sviluppi narrativi più complessi e più fondanti urgenze. In primo luogo, perché le
preparazioni hanno maturato esiti arcani e imprevedibili. E poi perché, nelle cucine moderne, niente di quel che ci viene servito è frutto di una nostra
consapevole scelta. Lo chef ha gradualmente sottomesso la clientela, relegandola a semplice destinataria dei suoi capricci. Talvolta, mascherando
l’imposizione con la geniale formula del “menu degustazione”. Che ha l’efficacia di un cavallo di Troia nel cuore del nostro libero arbitrio. Sempre più
spesso, imponendo lo sfacciato imperio del menu alla cieca. Pratica che mi ricorda il menu misterioso del refettorio scolastico tra le ombre della mia
infanzia.
Non sapendo quel che arriverà, ci aggrappiamo all’umanità del personale di sala. Ma lo “spiegone dei piatti” è anch’esso una prova d’autore, che ognuno
interpreta a suo modo. Di solito è il maître a prendersi in carico l’onore. Mentre i camerieri consegnano i prelibati cibi, egli drizza la schiena,
schiarisce la voce e decanta: “Qui, abbiamo figli di androcchia con pesto di nargìco al budolone 4mila gradi, concassé di erga sanma in nove cotture,
rigaglie di saltapicchio picchiò bienfullé. E pollo fermentato al vapore”.
C’è un preciso calcolo nell’enunciazione, io credo. Soltanto il principio e la fine debbono essere percepibili e intelligibili per l’orecchio umano. È
un dettaglio essenziale nella delicata economia dello spiegone. Perciò, gli specialisti di questa particolare disciplina fanno attenzione a sistemare
termini di comune comprensione strategicamente all’inizio e alla fine dell’epitaffio. E a rimarcarli con voce grossa e piena.