“Bere è un atto muto, la degustazione è un atto parlato” diceva Nerio Raccagni, docente e sopraffino degustatore AIS, che ammoniva: “Sii sempre
curioso. Devi conoscere come si coltiva il vitigno, dove e perché. Così puoi raccontare la storia di un vino, come nasce, cosa può rivelare e cosa
c’è dietro, per esperienza diretta. La conoscenza ti permetterà di creare fiducia nell’interlocutore, che sia un cliente o un allievo, evitando di
cadere in una facile superficialità”. Queste parole risalgono agli anni Ottanta del secolo scorso, ma sono più attuali che mai, perché si distaccano
dal modo in cui si sono sviluppate per lo più le degustazioni del vino in questa prolungata quarantena, un racconto a senso unico, senza quell’atto
parlato che implica uno scambio di opinioni. Sui social poche degustazioni hanno espresso il “come, dove e perché” di un vino, evaporando spesso in
una compiaciuta superficialità, tra un like e una condivisione. Poco male, non sono certo dannose, ma sono state utili?
È interessante la riflessione che nasce dal confronto tra “muto e parlato”, intendendo con “muto” una degustazione con racconto unidirezionale: io
parlo, e non so chi mi ascolta e perché; il “parlato” implica la presenza di interlocutori, che magari non intervengono, ma possono annuire o
dissentire con gesti ben visibili. Abbiamo analizzato il significato della degustazione non frontale, cioè senza pubblico, come invece accade nei
corsi per Sommelier. Generalmente, il coinvolgimento di un pubblico non attivo è più efficace se il vino raccontato è espressione di un brand
conosciuto, che ha con sé un pedigree degustativo, anche marcato dal monovitigno o da un uniformante stile produttivo. Il racconto, a distanza
social, suscita interesse perché attiva un confronto interiore, la memoria di aver degustato quel vino, magari rinnovando certe suggestioni che
aveva procurato. Questo ascolto desta più interesse nella classe dei degustatori mediamente informata e formata, ma diventa un po’ noioso per quelli
che vivono nella curiosità per il vino, per chi è abituato a muovere il proprio bicchiere all’unisono con chi sta degustando.
La degustazione social può svuotarsi del suo contenuto, perché le parole hanno un effetto blowin’ in the wind se non accordate in uno spartito
culturale che tratta il come, il dove e il perché. Ci si avvicina alla sponda di quella superficialità che nasce dall’appassionata improvvisazione e
si miscela in altre miriadi di appassionate improvvisazioni.
Come si vince la superficialità? Lo diceva il buon Nerio: curiosità e conoscenza. Il racconto social di un vino può essere un veicolo straordinario
per stimolare la curiosità e innescare la voglia di conoscere, ma la teorizzazione video di un’eloquenza enologica, enografica o d’abbinamento è
peggiore della superficialità se non si chiude con la condivisa esperienza dal vivo della degustazione guidata a corredo di quanto esposto. Non
esiste la degustazione teorica del vino, e nemmeno quella a distanza o per procura.
Molti pensano al vino come risultato di un vitigno (new world style) e sono convinti che l’aver degustato parecchi Chardonnay o Pinot nero non porti
a differenziazioni qualitative di sorta. Questo avvalora il concetto di una formazione non necessariamente accurata. Ciò può soddisfare l’esigenza
di essere sufficienti nella superficialità di raccontare il vino attraverso i social, perché si scaglia un dardo nel bersaglio dei diversi cerchi
della stessa superficialità. Chi invece conosce il vino sa che non è abbastanza. Se partiamo dalla degustazione che non mette in risalto il vitigno,
ma il terroir (old world style), e non cede a un selfie-tasting narcisista, c’è solo una strada: imparare le regioni del vino e i loro vitigni, gli
stampi enologici, le tradizioni, ed essere prima guidato e poi allenato da chi possiede un’esperienza maggiore. Questo virus ridisegnerà molti
aspetti della socialità, ma non modificherà quanto gira intorno al vino, al cibo, alla convivialità, al modo di degustare e di discuterne. Il vino
non va in quarantena, non gradisce il gesto muto del bere.
Ecco perché esiste il sommelier. Al ristorante tiene la discussione con il tavolo, serve il vino nelle condizioni ottimali e supporta il cliente con
suggerimenti che incontrino il suo gusto e il suo budget. Lo stesso aspetto divulgativo si ritrova in enoteca o in un wine bar. Anche l’insegnamento
ha bisogno dell’atto parlato, fondamentale per spiegare nell’immediatezza della degustazione e del servizio il “come, dove e perché” di un vino.
Alcuni produttori pensano che fornire dettagli di vinificazione, chimici, ampelografici e altre informazioni nella retroetichetta, o nel QR code,
aiuti il consumatore quando degusta quel vino da solo. Lo stesso accade se campeggia l’indicazione “vino biologico”. In entrambi i casi, invece, il
consumatore ha bisogno di molta più formazione e conoscenza per comprendere.
Si sta rafforzando il concetto di territorialità più stretta, di micro-territorialità, e il dibattito sulla degustazione geosensoriale va in questa
direzione. Per cogliere questi nuovi elementi servono una rigorosa applicazione della tecnica della degustazione e un rinnovato linguaggio, che
aiuti il degustatore, con studi ed esperienze, ad appropriarsi del concetto di obiettiva gradevolezza. Tante cose imparate al tempo del virus
potranno essere di aiuto: magari le App per tracciare uno storico di rating del vino, oppure l’ascolto o la lettura di qualificate esperienze
degustative altrui, o ancora le etichette pubblicate su Instagram.
Ma c’è anche un dopo, e queste occasioni esperienziali non avranno apportato alcun talento che aiuti a districarsi in enoteca o al ristorante, tra
vini ancora sconosciuti, per compiere la scelta più adatta al proprio gusto, al momento o al cibo da abbinare. L’unica strada è vedere il vino in
faccia, conoscere come, dove e perché. Ciò non può transigere dal crescere insieme, degustare insieme, confrontarsi. Il vino ha bisogno d’altro, ha
bisogno di noi.