Il Portogallo, anche se non distante dal punto di vista geografico, ha vissuto per secoli un isolamento forzato: da una parte l’oceano che l’avvolge per tutta la sua lunghezza, dall’altra la potenza ispanica con le sue mire d’annessione, mai andate a buon fine. Questo isolamento ha investito la viticoltura e il vino, non tanto nei commerci, bensì all’interno, tra un areale produttivo e l’altro, addirittura tra quelli confinanti. E così oggi i vitigni hanno più nomi, a seconda del territorio in cui sono coltivati. Ad esempio, rabo de ovelha, rabo de carneiro e rabigato (in italiano, coda di pecora, coda di montone e coda di gatto) indicano la stessa varietà. L’impressionante serie di sinonimi ha creato molta confusione. Inoltre, la parcellizzazione dei terreni non ha favorito una specifica selezione ampelografica.
In passato i vignaioli, per sopravvivere, piantavano moltissimi vitigni nello stesso fazzoletto di terra, così, se qualcuno falliva la resa annuale, c’erano gli altri a compensarla. La coltivazione non era a vigna, ma promiscua con altre colture; le rese erano elevate e la qualità ne soffriva. Anche quando, a metà del XIX secolo, iniziarono le prime catalogazioni, la ricerca non investì tutto il paese e si focalizzò principalmente nella valle del Douro, perché la potenza commerciale del Porto, in auge dal Seicento, catalizzava gli interessi a discapito degli altri vini, in particolare quelli ottenuti dai vitigni a bacca bianca. Le verifiche sull’identità si scontravano spesso con le omonimie genetiche, e si vanificavano gli sforzi di migliorare i vini da vitigni che non necessariamente davano il meglio di sé nella fortificazione, e tra questi erano moltissimi quelli a bacca bianca.