le bollicine gentili del Pignoletto
Fabrizio Bandiera

Fino a pochi anni fa il pignoletto era semplicemente un vitigno, l’autoctono di Bologna, punto di orgoglio per chi nella città ha il vino nel cuore, con un posto tutto per nel Registro Nazionale delle Varietà della Vite. Ora che è diventato un preciso luogo geografico, immerso fra colline ripide e ombrose con tanto di cartello stradale, in molti faticano a chiamarlo grechetto gentile. Al di là delle radici storiche citate nel disciplinare, dei moderni e ben confezionati comunicati stampa, dei frammentari documenti di Plinio il Vecchio che raccontano di un pinus associato all’aggettivo laetus, di Pier de’ Crescenzi e del Tanara - quest’ultimo scrisse di “uve pignole” - e di citazione sparse, distese su venti secoli di attività umane, alle soglie del nuovo millennio le colline intorno alla città erano ancora largamente coltivate a trebbiano e albana. Se ne faceva un bianco frizzante con tanto di denominazione d’origine sull’etichetta, scanzonato e leggero, piacevole nella sua semplicità, un vino che sembrava cucito addosso alla dotta e ciarliera strampalataggine del dottor Balanzone, per rinfrescare l’ugola dopo i suoi discorsi senza capo né coda. Un passato che ora è scomparso; molto è cambiato, ma solo in tempi recenti. Il pignoletto, o meglio il grechetto gentile, nella sua storia ha viaggiato un bel po’ lungo la nostra penisola: lo si trova nell’Umbria come grechetto di Todi, nei pressi di Rimini con il nome di rébola, e Wine Grapes, testo di riferimento mondiale per l’ampelografia, lo colloca persino in Campania, nelle vesti del pallagrello di Caserta, varietà distinta dal più famoso pallagrello bianco.


In Emilia giunge dalla pianura, piantato in filari per proteggere dal vento i campi di canapa grazie al suo abbondante fogliame. Se ne potevano vedere ancora molte vestigia, relitti di un’economia promiscua e rurale, sparite l’una dopo l’altra nella campagna che da Bologna conduce fino a Monteveglio. Apprezzato dai mezzadri per essere rustico e generoso, negli anni Cinquanta il vitigno è arrivato in collina, seppur con una identificazione incerta. Alcuni lo chiamavano “sparvo”, altri lo confondevano con il riesling italico o il pinot bianco. Magari cavalcando la moda di “autoctono è bello”, si è ritagliato anno dopo anno una posizione da protagonista, guadagnando infine una propria Docg nel 2010 con la versione Classico, estesa dal 2014 a tutte le tipologie. Per ovvi motivi l’affascinante e arcaica piantata bolognese è stata progressivamente abbandonata, sostituita dai moderni sistemi a guyot e cordone speronato; il produttivo GDC, un tempo usato anche in quota sulle pendenze meno spiccate, non è più preso in considerazione in occasione dei nuovi reimpianti.