esistenze promozionali Valerio M. Visintin Il mondo del food si interroga sul futuro della comunicazione. Non è la sola incognita al vaglio dell’epidemia, ovviamente. Ma è quella che mi appare più facile da svelare e decriptare, perché il flusso di articoli e di comunicazioni per la stampa non è mai entrato in lockdown. Non si è mai interrotto nemmeno per un minuto. Che cosa abbiamo visto in queste interminabili settimane? In una prima fase, le testate militanti hanno estratto due sole medicine dalla cassetta delle emergenze: le ricette (griffate o in carta libera) e le interviste agli chef. Le prime sono un sempreverde, un bene rifugio che non tradisce mai. Anche chi non coltivava il genere con frequenza ha fatto di necessità virtù, sciorinando prontuari per fare il pane o la focaccia, il cacciucco o la crème brûlée, gli gnocchi o il caffè coreano. Qualsiasi procedimento fosse commestibile e riproducibile tra le mura domestiche è stato schiaffato sulla carta e online. Anche le interviste agli chef d’alto bordo erano già un consolidato classico. Nel pieno dell’emergenza, tuttavia, hanno cambiato pelle. Sono diventate un genere letterario affine alla fantascienza. Ai cuochi si è chiesto e richiesto di leggere nel futuro del mondo e di proclamare un responso divino. Pur riluttante, mi sono inflitto parecchi di questi vaticini per documentarmi e prepararmi opportunamente al futuro che dipingevano. Purtroppo, ho raccolto frasi sibilline, lamentazioni lacrimevoli o banalità infantili. Non ne faccio una colpa agli astri della nostra cucina. Semmai, la responsabilità è dei miei colleghi, incapaci di condurre il discorso su terreni che non fossero stati arati da mille interviste precedenti. Col passare dei giorni e con la riapertura graduale dei ristoranti per il servizio di consegna a domicilio e di asporto, si è aperta la strada a una nuova forma di comunicazione. Un registro più intimo, se vogliamo. E meno istituzionale. È quello che passa attraverso i social, saltando a piè pari le testate ufficiali, anche se gli interpreti sono penne ben note. Instagram, in special modo, è diventato il veicolo di una infinita sequela di markette. Intendiamoci, il fenomeno era ampiamente in atto. Ma, salvo indegne eccezioni, restava nel recinto espressivo degli influencer militanti. Gente che ha scelto di trasformare la propria esistenza in un ininterrotto spazio pubblicitario. Ogni centimetro dei fatti loro è in vendita: dalla tazza della colazione al cuscino sul quale la notte posano il capoccione. Può sembrare una scelta individuale. La svendita insindacabile di un bene personale. Non è così. Intanto, perché incide pesantemente sulle scelte e sulla prospettiva mentale del pubblico meno fornito di attrezzi culturali. In secondo luogo, perché annulla le distanze tra libera informazione e pubblicità. Rendendo indistinguibili i due piani di lettura. Per queste ragioni, è gravissimo che a sversare litri di markette nel mare dei social siano anche giornalisti e para-giornalisti. Tutti quei comunicatori, insomma, dai quali ci si attende distacco, indipendenza di giudizio, trasparenza e lealtà nei confronti dei lettori. Instagram cerca di sorvegliare la correttezza dei suoi utenti, imponendo avvisi ai naviganti. Frasi inequivocabili come “partnership pubblicizzata con Xxy”. Ma non basta. Quando un professionista del food (giornalista o blogger che sia, non fa più differenza) squaderna pacchi e pacchettini di cibo in arrivo dal delivery di qualche ristorante, nessuno è in grado di stabilire se quella sia una comunicazione spontanea o prezzolata. D’altra parte, il dubbio che si tratti di una pubblicità mascherata è legittimo, vista l’irritualità della comunicazione. Proprio su questo nodo inestricabile ha messo radici poderose la fabbrica delle markette. Ma di fronte alla crisi galoppante, sono emersi altri aspetti poco edificanti. Le pagine del food, già propense a parlar di nulla, hanno ulteriormente alleggerito il peso specifico delle tematiche. Persino su testate di conio recente – dalle quali ci si potrebbe attendere segni di freschezza e di vitalità giornalistica – ho letto lenzuolate di argomenti vacui con riferimenti più o meno nascosti, più o meno indebiti a marchi commerciali. Anche in questo caso, possiamo sforzarci di credere alla buona fede. Ma il dubbio dovrebbe essere sufficiente a screditare l’autore. Come per la moglie di Cesare, i nostri comportamenti devono essere perfettamente trasparenti e al di sopra di ogni sospetto. L’ultima frontiera della comunicazione nel food è nei destini incrociati di giornalisti e uffici stampa. Sempre più dipendenti i primi dai secondi. Sempre più in posizione ancillare. Gli uffici stampa hanno contatti diretti con gli sponsor, intrecciano influenze tra chef e congressi, scelgono i convocati ai vernissage e alle conferenze che contano, hanno tra le dita un potere crescente sulla folla indistinta dei foodisti. Mi attendo che, nel prossimo futuro, appaiano in primo piano sulle pagine delle testate di settore. Anzi, a dire il vero è già accaduto. Insomma, è inevitabile che il mondo del food si interroghi sul futuro della comunicazione. Ma non ha alcun bisogno di chiromanti e palle di vetro. È già tutto scritto nel Dna di un popolo abituato a coltivare i vizi con la passione che dovrebbe riservare alle virtù.