libri liquidi a Serralunga Fabio Rizzari Se il vino è un libro liquido, nella folgorante immagine di Paolo Monelli, allora il Barolo è un’enciclopedia. Contiene ogni sfumatura aromatica, ogni sapore: ricorda la frutta fresca (lampone, fragoline di bosco) ma anche la frutta candita; abbonda di analogie floreali (rosa su tutte); non teme di esprimere una bella fetta di quella che gli analisti sensoriali chiamano serie empireumatica (catrame, ovvero goudron, fumo, tabacco); è aereo e luminoso grazie alle robuste ali alcoliche, e insieme ombroso, massiccio, baritonale per la potente componente tannica e terrosa. Non stupisce che la sua forza imponente tenda a respingere i neofiti, spaventati dai suoi valori sensoriali fuori scala: troppo astringente, troppo caldo, troppo denso. Troppo tutto. Il Barolo richiede un palato esperto. Proprio come, nell’Ottocento, i suoi primi bevitori sapevano affrontare un pasto di otto portate, un viaggio in carrozza di due giorni, un’opera lirica di quattro ore. Il Barolo è infatti un vino ottocentesco, un meraviglioso anacronismo. Oggi un numero crescente di consumatori, nel mondo, cerca vini leggeri, di poco alcol e pochi tannini. Il Barolo è un sopravvissuto di un’altra era. Va quindi contemplato come un reperto archeologico, e allo stesso tempo vissuto come un soggetto vivente, un ultracentenario che ha ancora molto da dire alle nuove generazioni. Il complesso dispositivo di vigne della Docg Barolo, che per legge non scritta del giornalismo enoico deve essere definito “mosaico”, non conosce una vera e propria classificazione formale quanto a qualità dei singoli cru. Nella tradizione orale, nei passaparola dei conoscitori, e più prosaicamente nel prezzo spuntato dalle uve, esistono tuttavia delle parcelle rinomate e rinomatissime. Tra queste ultime si può scremare un ulteriore drappello di quattro, cinque vigne riassorbite nella leggenda. Vigna Rionda o – se si preferisce come trascrizione – Vignarionda, è di sicuro tra loro. Ricordo ancora quando, un quarto di secolo fa, chiesi a Silvio Barbero, figura storica di Slow Food, quale cru di Barolo ritenesse il più “completo”. “Una domanda che non ha, non può avere una risposta esauriente”, rispose con bonaria condiscendenza verso un quesito tanto tagliato con l’accetta. Poi fece una pausa, guardò un punto indefinito davanti a sé, e aggiunse: “La Rionda, se devo fare un nome”. Vigna Rionda si trova nel comune di Serralunga d’Alba e si estende per circa dieci ettari, a un’altitudine fra i 300 e i 350 metri. Il terreno è calcareo con inserti marnosi, l’esposizione principale è ideale – ideale almeno fino all’affacciarsi del molesto cambio climatico planetario – tra sud e sud-ovest. Sulla Rionda il massimo esperto del territorio langarolo, Alessandro Masnaghetti, si esprime in questi termini nel suo centrale volume Barolo MGA, Menzioni Geografiche Aggiuntive: “Senza nulla togliere ad altri cru di questo comune, Vigna Rionda nell’immaginario di molte persone è diventato un vero e proprio sinonimo di Barolo di Serralunga, anche se per la verità lo stile dei suoi vini è quello che più si stacca dai canoni riconosciuti di questo comune. Per dirla in altro modo, i Barolo che qui vengono prodotti sono – prima ancora che dei vini di Serralunga – dei Barolo di Vigna Rionda, tanto è chiara l’impronta del cru. Un’impronta che si traduce in uno stile verticale, austero e quasi inflessibile che si ritrova sia nel cuore storico di questa vigna (leggi il versante esposto a sud e a sud-ovest) sia nel settore rivolto ad occidente, che così giustifica senza esitazioni la sua appartenenza al cru, così come riconosciuto dalla delimitazione comunale degli anni ’90”. Nei decenni si sono susseguite molte grandi bottiglie provenienti dalla Rionda. È doveroso citare per primo il sublime Barolo Collina Rionda di Bruno Giacosa, leggendario selezionatore di uve, autore di vini spesso straordinari. Queste della Rionda le comprava dalla famiglia Canale. Fino ai primi anni Novanta del secolo scorso la rarefatta “etichetta rossa” con la scritta Collina Rionda era oggetto di culto. Et pour cause. L’82 rimane ancora oggi uno dei più stupefacenti conseguimenti vinosi che mano umana abbia mai creato. Profumato fino all’inverosimile - di qualsiasi cosa emani profumo: fiori, frutti, spezie, legni, resine, erbe -, rimane testimone liquido della capacità del cru di dare un vino completo. Un vino potente, energico, battagliero, e insieme ricamato, finissimo nei dettagli aromatici. Caratteristica peculiare dei Barolo provenienti dalla Rionda è ciò che la trattatistica descrive da sempre come una sorta di “verticalità austera”. Figli di una vigna ricca di luce, sono rossi che hanno bisogno di anni e anni di bottiglia per aprirsi, per sciogliere la loro rocciosa inattaccabilità giovanile in accenti più ariosi, più aperti, più comunicativi. Un Barolo Vigna Rionda (Riserva) molto noto e apprezzato è quello dei fratelli Massolino. Squadrato e vagamente ostile appena immesso sul mercato, è capace di un arco evolutivo lunghissimo. Il 1996, per dire, si sta decidendo solo ora a uscire dalla clausura monastica e a mostrare il suo grande potenziale in termini di pienezza, complessità, forza motrice al palato. Notevoli interpretazioni sono firmate poi da Sergio Germano, dagli ormai separati nuclei produttivi degli Oddero, da Luigi Pira, da Guido Porro e – con poche vendemmie alle spalle – da Giovanni Rosso. Personalmente mai provata, invece, la versione di Anna Rosa Regis. Confinante con Vignarionda, scollinando sul versante opposto, si trova una parcella infinitamente meno nota e meno citata: Collaretto. La prossimità con l’illustre cru non comporta un travaso di risorse pedoclimatiche paragonabili: l’esposizione è diversa, se si eccettua la piccola porzione sommitale e liminale, che guarda come la Rionda a sud-ovest; il resto si affaccia invece tra ovest e nord. Il cru è meno soleggiato e più basso. La superficie vitata è di quasi un terzo superiore, poco più di quattordici ettari. Qui la percentuale di altre varietà, oltre al nebbiolo, è più alta: trovano spazio il dolcetto e la barbera. Le uve nebbiolo di Collaretto danno in media rossi dal timbro più tenero, decisamente meno monumentale rispetto agli imponenti vicini. Qui il Barolo “ha buona sostanza e carattere più malleabile rispetto a Vignarionda”, sempre nelle parole di Masnaghetti. Si cimentano con la sua vinificazione in purezza solo due aziende: Giacomo Anselma di Serralunga (da non confondere con gli Anselma di Barolo) e Gemma. Giacomo “Giaculin” Anselma, il padre dell’attuale titolare Franco, era una leggenda delle Langhe. Oltre a produrre vino, per decenni ha gestito una trattoria a Serralunga, dove transitavano – e transitano – i migliori palati della regione e d’Italia. Sì, perché, en passant, gli Anselma producono, in numeri confidenziali, anche uno stilizzato Vigna Rionda, da una piccola parcella di mezzo ettaro. “Ci mangiavo spesso”, ricorda Riccardo Lombardi, psicanalista di fama internazionale e grande esperto di vini, autore di numerosi articoli monografici sulla Borgogna; “una sera a metà degli anni Ottanta ricordo ancora con emozione che Anselma, dopo cena, m invitò in cantina e mi fece assaggiare dalla botte il suo Barolo Vigna Rionda 1982, uno dei più stupefacenti rossi che io abbia mai bevuto.” Qui il centro dell’attenzione è il loro meno illustre Collaretto: meno illustre ma degnissimo, capace di offrire uno spettro aromatico e gustativo decisamente non trascurabile. Vinificato in maniera molto tradizionale, con lunghe macerazioni in botti grandi, non sarà un peso massimo, ma il Barolo Collaretto Anselma riserva più di una sorpresa positiva all’assaggio, o meglio alla bevuta. Come molti vini veri segue dopo la stappatura un andamento retrogrado: appare indolente, sfocato, quasi monocorde nei primi minuti, per poi acquistare nel bicchiere via via tono, slancio, tensione, profondità. Il 2013, provato a giugno 2020, accentua ancor di più questa peculiarità: appena versato sembra addirittura semi-ossidato nelle note spente di olive in salamoia e champignon. Dopo una mezz’ora si ricompone offrendo aromi più ariosi e floreali; e dopo un’oretta (quel poco che rimane nella bottiglia) profuma trionfalmente di arancia sanguinella e rose. A ulteriore riprova che il vino autentico dà comunque un grande piacere, che sia un primattore celebrato o un piccolo comprimario.