Se il vino è un libro liquido, nella folgorante immagine di Paolo Monelli, allora il Barolo è un’enciclopedia. Contiene ogni sfumatura aromatica, ogni sapore: ricorda la frutta fresca (lampone, fragoline di bosco) ma anche la frutta candita; abbonda di analogie floreali (rosa su tutte); non teme di esprimere una bella fetta di quella che gli analisti sensoriali chiamano serie empireumatica (catrame, ovvero goudron, fumo, tabacco); è aereo e luminoso grazie alle robuste ali alcoliche, e insieme ombroso, massiccio, baritonale per la potente componente tannica e terrosa.
Non stupisce che la sua forza imponente tenda a respingere i neofiti, spaventati dai suoi valori sensoriali fuori scala: troppo astringente, troppo caldo, troppo denso. Troppo tutto. Il Barolo richiede un palato esperto. Proprio come, nell’Ottocento, i suoi primi bevitori sapevano affrontare un pasto di otto portate, un viaggio in carrozza di due giorni, un’opera lirica di quattro ore.
Il Barolo è infatti un vino ottocentesco, un meraviglioso anacronismo. Oggi un numero crescente di consumatori, nel mondo, cerca vini leggeri, di poco alcol e pochi tannini. Il Barolo è un sopravvissuto di un’altra era. Va quindi contemplato come un reperto archeologico, e allo stesso tempo vissuto come un soggetto vivente, un ultracentenario che ha ancora molto da dire alle nuove generazioni.
Il complesso dispositivo di vigne della Docg Barolo, che per legge non scritta del giornalismo enoico deve essere definito “mosaico”, non conosce una vera e propria classificazione formale quanto a qualità dei singoli cru. Nella tradizione orale, nei passaparola dei conoscitori, e più prosaicamente nel prezzo spuntato dalle uve, esistono tuttavia delle parcelle rinomate e rinomatissime. Tra queste ultime si può scremare un ulteriore drappello di quattro, cinque vigne riassorbite nella leggenda. Vigna Rionda o – se si preferisce come trascrizione – Vignarionda, è di sicuro tra loro. Ricordo ancora quando, un quarto di secolo fa, chiesi a Silvio Barbero, figura storica di Slow Food, quale cru di Barolo ritenesse il più “completo”. “Una domanda che non ha, non può avere una risposta esauriente”, rispose con bonaria condiscendenza verso un quesito tanto tagliato con l’accetta. Poi fece una pausa, guardò un punto indefinito davanti a sé, e aggiunse: “La Rionda, se devo fare un nome”.