in vino salus Barbara Ronchi della Rocca Le più antiche basi terapeutiche della pratica medica sono olio e vino: quelli che il buon Samaritano della parabola versa sulle piaghe del ferito. La tradizione popolare attribuiva a san Luca, medico ed evangelista, l’invenzione del “balsamo di Tornamira”, a base dei frutti dell’olivo e della vite. Infatti, la forza risanatrice (“spirito arboreo”, essenza stessa della vitalità e della fecondità) è contenuta in tutte le piante, ma in particolare nell’olivo, sacro perché legato al patto stipulato tra Dio e Noè dopo il diluvio, e ancor più nella vite, la cui foglia – una delle pochissime con simmetria quinquenaria – fin dai Sumeri è simbolo della figura umana per “magia di similitudine”, come il pentagono dell’Uomo vitruviano di Leonardo. Noè dopo il diluvio (e la sbronza) vive ancora per ben trecentocinquant'anni! Così la Bibbia raccomanda di dare vino a chi soffre, a chi è moribondo (Proverbi, 31,7) e chi ha il cuore pesante. Un papiro dell’Antico Egitto prescrive nettari diversi per varie afflizioni: il mareotico bianco dei dintorni di Alessandria come diuretico, il vino della foce del Nilo come digestivo e quello della Tebaide per abbassare la febbre. La farmacopea enoica dei Greci comprende il vino di Chio come collirio, quelli di Taso e di Erea in Arcadia, che rinvigoriscono gli umori virili e aumentano la fecondità delle donne, mentre quello di Trezene le rende sterili; un particolare vino dell’Acaia era abortivo, e a Taso se ne producevano due dagli effetti contrastanti, uno che sveglia e l’altro che fa addormentare. Persino i filosofi stoici, tutt’altro che teneri con i piaceri carnali, consigliano il bere (e l’ubriachezza) come medicina per curare la tristezza e le altre malattie dell’anima. I vini rossi “spessi” servono per frizioni e medicazioni di piaghe e ferite, ma anche come corroborante: nell’Iliade Nestore suggerisce a Macaone, sofferente per una ferita alla spalla, di mangiare cipolla per fortificarsi e poi bere vino con dentro formaggio di capra grattugiato. Gli opliti greci si gettavano nella battaglia con lancia e scudo dopo aver bevuto parecchi litri di vino, come cura preventiva. Ippocrate, padre della medicina, ritiene che il vino giovi alla salute del corpo e dello spirito perché è il sangue della terra. Le sue indicazioni sui vini più adatti alle varie malattie e alle diverse stagioni dell’anno sono seguite fedelmente per tutto il Medioevo, grazie al Regimen Sanitatis della Scuola Medica Salernitana, che indica due tipologie di vino salutare: fortis, formosus, fragrantis, frigidus, friscus (“gagliardo, bello, profumato, fresco di cantina e giovane”), oppure claris, vetus, subtile, maturum ac bene linfato, saliens (limpido, vecchio, tenue, maturo ma ben temprato, spumante); comunque da bere moderamine cioè con moderazione. Il vino passito è indicato per anziani, malati e flemmatici, perché aiuta polmoni, stomaco e fegato, fortifica il sangue, combatte la putrefazione, scaccia la nausea, la tosse e l’asma. E, non ultima qualità, “ingrassa le donne”. D’altronde, già l’Ecclesiaste diceva che “il vino dona floridezza alle vergini”. Anche i Romani conoscono bene le proprietà battericide del vino, indispensabile bevanda dei legionari nelle campagne militari. Plutarco racconta che Cesare riuscì a debellare una malattia che stava decimando l’esercito distribuendone una razione extra ai soldati. Il medico Galeno disinfetta col vino le ferite dei gladiatori, prescrive vino invecchiato almeno venticinque anni contro le infezioni gastrointestinali, e cura con vino, miele e radice di liquirizia mal di gola e tonsilliti. Ma proibisce il vino ai minori. Nelle Georgiche Virgilio consiglia di rinfrancare i moribondi versando loro vino in gola con l’aiuto di un imbuto di corno (III, 510). Sappiamo che Cleopatra apprezzava le virtù afrodisiache di un dolce vinum aquense (Brachetto?) che prima Cesare e poi Antonio importano per lei dal Nord Italia, fatto passire col calore del sole egiziano. La bella regina inoltre si faceva massaggiare col mosto, anticipando la moda odierna della wine therapy amata da attrici e regine del pop. Perché, dice il poeta dell’amore Ovidio, con il vino “se ne vanno dolori e affanni e rughe dalla fronte”. La casta Livia, moglie di Augusto, era tra gli estimatori del vino passito raeticum (Recioto) e attribuiva il merito della propria longevità al moderato consumo di questo vino nobilissimo. Quanto a Plinio, nota che “nel corpo degli astemi il colorito è più pallido e c’è meno forza, e meno resistenza alla fatica”, perché “un po’ di vino fa bene ai nervi, riattiva lo stomaco, stimola l’appetito, riscalda il corpo, addolcisce tristezze e affanni, è diuretico, favorisce il sonno e interrompe il vomito”. Un vero toccasana. D’altra parte, ancora oggi brindando si dice la parola latina prosit che significa “sia utile, faccia bene”. E sulle coppe spesso si incidevano le parole: Bibe vivas multis annis (Bevi, vivrai molti anni). Il medico personale di Nerone, Dioscoride, differenzia le proprietà terapeutiche del vino secondo l’età: quello giovane favorisce la digestione delle carni, ma non va bevuto la sera perché procura brutti sogni; quello invecchiato mischiato con miele cura tosse e bronchite. Un altro medico, Celso, prescrive vino greco con l’aggiunta di sale per curare l’itterizia e i mali intestinali, e vino passito come ricostituente. Ecco perché nella sua Epistola San Paolo consiglia a Timoteo: “Smetti di bere soltanto acqua, ma fa’ uso di un po’ di vino a causa dello stomaco e delle tue frequenti indisposizioni”. Anche Cassiodoro si fida ciecamente delle virtù medicinali del vino greco nella sua Calabria. È anche merito loro se per secoli gli ospedali di conventi e monasteri curano con il vino, indispensabile rimedio contro la malnutrizione, e tonico per chi è debilitato o ha bisogno di rinforzarsi, come le donne incinte e le puerpere, tanto che il contratto di baliatico prevede tre litri giornalieri alla donna che allatta. Alla fine del Duecento Arnaldo da Villanova nel Liber de vinis considera come miglior vino “terapeutico” il bianco perché, se bevuto puro, “trasporta piacevolmente e naturalmente, attraverso tutte le membra del corpo, le proprietà delle sostanze incorporate”; specialmente Moscato e Malvasia sono il miglior rimedio contro la peste e le febbri putride; concetto ripreso anche da Boccaccio, nell’Introduzione al Decamerone. Però, durante la pestilenza che affligge Torino nel 1528, l’unico rimedio sicuro contro il contagio, secondo i medici, è un vino rosso, la Freisa di Chieri. A metà del Cinquecento Sante Lanterio, cantiniere di papa Paolo III Farnese, annota caratteristiche e virtù medicinali dei principali vini che il papa beve – e non solo: col Greco di Somma il pontefice ogni mattina si lava gli occhi e le parti virili. E per imbiancare i denti li strofina con una pezza di scarlatto intrisa di Moscato mescolato con caolino. Paracelso, medico-astrologo-alchimista, nel Paragrano si dichiara certo del fatto che “il fegato vuole bere ed esige il vino”; quindi cura l’anemia col “vino ferroso” ottenuto facendo arrugginire dei chiodi di ferro nel vino rosso. Il bolognese Baldassarre Pisanelli, archiatra del duca di Savoia, nel Trattato de’ cibi e del bere dichiara che “il vino dà buona speranza, rallegra gli spiriti, fa l’animo audace, abbatte l’arroganza e produce una bellezza singolare”. E Cesare Crivellati, “Medico fisico” dell’ospedale di Viterbo, nel Trattato dell’uso et modo di dare il vino nelle malattie acute analizza i vari tipi di vini: nuovi, vecchi, bianchi, rossi, dolci, austeri, crudi, cotti, navigati, non navigati, odorosi, senza odore, potenti, deboli, sottili, grossi, saporiti, insipidi. Per gli abitanti della Città del Sole di Tommaso Campanella vi sono caraffe di vini e liquori di cento e trecento anni, che sanano ogni possibile malattia e infermità, tanto che la vita media va dai cento anni ai “centosettanta o duecento al rarissimo”. Tutti però sono “molto temperati nel bevere: vino non si dona ai fanciulli sino alli diciannove anni senza necessità grandissima, e bevono con acqua poi, e così le donne; li vecchi di cinquanta anni in su bevono senz’acqua”. Intanto, il Siglo de Oro diffonde la moda dei vini di Spagna come medicina. Secondo alcuni biografi, il filosofo Cartesio sarebbe morto proprio per averne bevuti troppi; secondo altri, invece, la colpa fu del tabacco infuso nel vino, usato come emetico. In Molise furono impiantate viti di tintilla (o tintiglia) importate direttamente dalla Spagna per le proprietà medicinali: l’abate Carlo Innocenzo Frugoni (1692-1768) scrive in una lettera: “Una medica bottiglia! Io ne bevvi, e in quel nero Odorato vino Ibero ritrovai... alla barba dell’avaro Opero Speziale, il rimedio del mio male”. E ancora, nel 1821 il cardinale Capece Zurlo “possedeva de’ vini di Spagna preziosissimi per qualche bisogno del suo stomaco”, e “mentre stava infermo nel suo ritiro di Loreto di Montevergine, erasi ristorato assai e quasi tornato in vita con l’uso di una certa tintiglia”, come racconta l’abate Luigi Carlo Federici. Anche l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert crede nei poteri curativi di certi vini per molte malattie, e giudica più salutare bere vino puro nei mesi caldi che in quelli freddi. Basandosi proprio sulle teorie enciclopediche, nel 1788 il dottor Andrea Foscolo, protomedico all’ospedale di Spalato, prova invano a calmare il carattere violento del figlio Ugo (che in collegio aveva rotto la testa a due maestri) con una cura a base di vino. Risultato: qualche sbronza, e caratteraccio come prima. Meglio rimandarlo alla natia Zante, da una zia. Ma a quanto pare il Nostro imparò la lezione, perché raccomanda il Moscatello di Montalcino “come corroborante dopo le fatiche letterarie e amorose”. Il vino diviene oggetto di ricerca scientifica di altissimo livello nell’estate del 1858, quando Louis Pasteur si ritira con un assistente nella casa di famiglia ad Arbois per dedicarsi agli studi sulla fermentazione: lo aiutano amici e conoscenti, che gli regalano bottiglie di vino da esaminare. Da questa fatica “corale” nasce nel 1866 lo scritto Études sur le vin, che afferma “il vino è la più salutare e igienica di tutte le bevande”. E non possono che essere d’accordo i medici di corte quando nel 1869 il re Vittorio Emanuele II guarisce insperatamente da una grave polmonite: parte del merito viene attribuita alle bottiglie di vino di Oporto che il reale paziente si era scolato durante la malattia.