La sorprendente seconda vita del susumaniello, da vitigno gregario a protagonista di eccellenti declinazioni che ne valorizzano la spiccata propensione a inediti stili interpretativi.
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somarello
Giuseppe Baldassarre
La vicenda del susumaniello pugliese è molto avvincente perché indica l’inattesa metamorfosi di un vitigno che sembrava destinato, se non a scomparire, a rimanere per sempre un gregario, relegato dietro le quinte. Non che nel passato non fosse apprezzato, dato che riusciva a infondere nei vini da taglio la generosa concentrazione dei suoi antociani e il vigore dei tannini. Tuttavia, non aveva uno spazio autonomo per cimentarsi come protagonista.
Tramontata l’era dei vini da taglio, il susumaniello rischiò di essere considerato superfluo e di abbandonare per sempre la scena delle vigne pugliesi. La superficie vitata occupata da questa varietà crollò inesorabilmente e dai 905 ettari del 1970 si scese ai 50 del 2010.
Poi, come per Cenerentola, arrivò l’occasione insperata: fu vinificato da solo, all’inizio unicamente per capire se, in fondo, avesse qualcosa di speciale. Ci provarono per primi Gregory Perrucci di Accademia dei Racemi a Manduria e Luigi Rubino di Tenute Rubino a Brindisi, in un periodo in cui in diverse regioni italiane si iniziava ad attingere al patrimonio dei cosiddetti vitigni autoctoni minori, varietà locali lasciate in un angolo per ragioni differenti, ma che all’improvviso diventavano uno strumento di caratterizzazione della biodiversità e dell’identità territoriale.
Bastarono poche esperienze ben mirate per decretare il successo della vinificazione in rosso del susumaniello in purezza. In un primo tempo si cercarono vini strutturati, capaci di evoluzione medio-lunga; poi fu chiaro che si ottenevano risultati lusinghieri anche puntando su una beva meno impegnativa e più immediata.