amo i ristoranti Valerio M. Visintin “Visintin, ma a te piacciono i ristoranti? No, perché mi pare che non ti va mai bene niente. Schiaffeggi e prendi in giro tutto e tutti…” Non so dirvi in quante occasioni mi hanno gettato addosso frasi di questo tenore. Di solito, taccio. Lascio correre. So bene che, nel demi-monde del giornalismo gastronomico, l’assuefazione al consenso è tale da rendere blasfemo e inaccettabile qualsiasi accenno critico. Tuttavia, ritengo sia meglio cambiare rotta dialettica, per una volta, affermando a chiare lettere e senza equivoci che amo i ristoranti. Parteggio per i ristoranti. Faccio il tifo per loro. Non soltanto perché campo scrivendone; dettaglio di qualche rilevanza. Ma per un dato genetico, visto che i miei genitori uscivano a cena ogni sera di ogni settimana. Coppia vocata a umori estremi, non si immolava a questa vita per obbligo contrattuale, come capita a me. Rispondevano a un richiamo più intimo ed emotivo, che banalmente definirei “passione per la vita”. Posso dedurre senza margine d’errore d’aver assunto la mia vocazione gastronomica in piena gestazione, attraverso quel formidabile imprinting quotidiano. Quindi, lo ripeto: amo i ristoranti. Qualche settimana fa ho compiuto trent’anni di recensioni. Eppure, non mi sono ancora stancato di spendere le mie serate e i miei quattrini a quei tavoli. Persino in questi tempi di distanziamenti (rispettati con crescente lassismo, in verità) e di mascherine. Amo i ristoranti al punto che il mio sogno sarebbe girare da una cucina all’altra trovando sempre bocconi paradisiaci in sale calde e confortevoli come guanti di cachemire. Ma se la realtà mi presenta un altro volto, mi corre l’obbligo ingrato di doverlo dichiarare senza censure. In caso contrario, tradirei il senso del mio mandato, sebbene sia poca cosa. Beati quei colleghi che si trovano a meraviglia ovunque vadano. Si vede che sono più fortunati di me. Io amo i ristoranti d’ogni razza e ceto sociale. Mi piacciono la familiarità di certe trattorie e il lusso dei ristorantoni, l’arte antica e fulminea dei pizzaioli e l’intuito centimetrato dei grandi chef. Amo i ristoranti. Ma vorrei si annunciassero con un’insegna semplice, domestica e amichevole. Meglio se non si tratta di un cognome, perché non sono studi notarili. Al limite, può andare un nome di battesimo. Va bene (quasi) tutto, comunque, purché non si replichino i nomi sinistri o minacciosi che fioriscono negli ultimi anni. Cose tipo: “Veleno”, “Immorale”, “Nebbia”, “Fetenzia”. Amo i ristoranti se la loro religione ufficiale è il cliente. Se attorno al nostro benessere si dipana una liturgia felice, di premure naturali e rispettose accortezze. Li amo se hanno un sorriso e un guardaroba che ci aspetta all’ingresso, ma li evito se hanno in serbo pacche sulle spalle e battute da caserma. Mi piacciono le attenzioni, ma non tollero il cameriere attaccato alla collottola per tutta la sera come un secondino. Non voglio che mi rabbocchi il bicchiere a getto continuo, spingendomi all’alcolismo e costringendomi a sussurrare per preservare una briciola di intimità col mio commensale. Amo i camerieri se mantengono le distanze. Ma non tanto da costringermi a chiamarli al cellulare, nell’estremo tentativo di catturarne l’attenzione. L’ho fatto davvero tempo fa in un locale di via Borsieri, a Milano: “Buongiorno, siamo i due signori che si sbracciano da un’ora al tavolo 5. Ci porta il pane e un’altra bottiglia d’acqua, per cortesia?”. Amo, lo ripeto, i ristoranti di alto ceto. Purché mi coccolino e riveriscano come un principino, anche se sono il signor nessuno (oltretutto, mi muovo soltanto in incognito). Ma non digerisco il contegno dickensiano di alcuni maître inabili al sorriso, che confondono l’eleganza con il sussiego. Nei ristoranti che amo, il menu è un mezzo per dar modo al cliente di scegliere la propria ordinazione. Un documento sul quale troverò descrizioni chiare e sintetiche. Se un ingrediente è inusuale, ci sarà una parentesi che mi spiega di che cosa si tratta. Mi cascano le braccia, invece, se le portate sono battezzate con velleità poetiche o calembour da terza media. Mi indigno se ci sono pubblicità artatamente nascoste tra le righe, come il nome del pastificio, per esempio, o di altre aziende che non è utile citare. Nei ristoranti che amo lo chef non è un divo che si presta ai selfie con i clienti. E non è un alchimista che porta in tavola “cucina di ricerca”, avendo fatto i conti soltanto col proprio esibizionismo. Amo i ristoranti. Ma non quelli che vivono in funzione dei riconoscimenti targati Michelin. Che sintonizzano i prezzi sul numero delle stelle conseguite. Che si piegano all’assurda imposizione di inventare nuovi piatti per ogni annata, come se la creatività in cucina fosse un valore assoluto e illimitato. Mentre, per intrinseca natura, è - in qualsiasi campo dell’umano ingegno - una potenzialità limitata da dosare con parsimonia. “Sì, va bene. Ho capito, Visintin. Ma ancora non mi hai detto perché non ti va mai bene niente. Schiaffeggi e prendi in giro tutto e tutti. Davvero ami i ristoranti?” Massì, massì, diamine. Amo i ristoranti. Li adoro. Ma se mi pare che qualcosa non vada per il verso giusto, lo scrivo. Perché ciò che amo e rispetto più d’ogni altra cosa sono i lettori.