quel che resta
del giorno

Morello Pecchioli

Scopriamo quanto sia nobile, etica e golosa l’arte di recuperare quel che resta sulle tavole dei giorni di festa, reinterpretandolo con estro creativo.

Tutte le mattine faccio colazione con una tazza di caffellatte e un rosicchiolo di pane avanzato dalla cena della sera prima. È un piacere che mi è rimasto dentro da quando, bambino, abitavo in un appartamentino delle case popolari. Non c’era molto da scialare. Era inconcepibile buttar via gli avanzi del cibo, soprattutto il pane, che la mamma riutilizzava in tanti modi: per impanare, fare i ripieni e, con midollo di bue, brodo di carne e tanto pepe, preparare la pearà, la salsa veronese che accompagnava, ogni santa domenica, i bolliti.

Crescendo ho conosciuto brioches, cornetti, maritozzi, croissant, ma alla fine più di tutti continua a piacermi il caffellatte col pane secco, cui sono rimasto fedele come si resta devoti al ricordo del primo amore. Credevo che la mia fosse una colazione frugale. Ho scoperto, invece, che è un breakfast imperiale. Antonino Pio, quindicesimo imperatore di Roma vissuto nel II secolo d.C., sovrano saggio, uomo di virtù come rivela l’epiteto, odiava gli sprechi e amministrava la res publica come fosse il suo patrimonio privato. Alla fine di ogni convivium (il banchetto serale dei romani ricchi) comandava ai servi di raccogliere il pane avanzato e di tenerlo per lo ientaculum della mattina dopo, la prima colazione, che consumava con la famiglia e con i membri del suo consiglio. Se qualcuno aveva voglia di qualche focaccina, le brioche di allora che Marziale cita in un epigramma (“Alzatevi, già vende il fornaio le focacce ai bambini”), se la doveva far passare: il pane secco era abbondante e non andava sprecato. Antonino odiava sperperare, ma era anche convinto che il pane, quanto più era raffermo, tanto meglio giovava alla salute. Se sia vero, non si sa. Di sicuro faceva bene alla democrazia: il Pio imperatore è ricordato come uno dei più grandi, uomo di pace, liberale, restauratore del Senato che sotto Adriano, l’imperatore precedente, aveva perso parecchia importanza.

Pur non arrivando alla frugalità di Antonino, era costume dei Romani far colazione con ciò che era rimasto dalla coena consumata al tramonto del giorno prima. Scrive Ilaria Gozzini Giacosa in A cena con Lucullo: “Appena levatosi, il Romano, come l’inglese attuale, faceva una ricca colazione che consumava in piedi. In genere tale colazione era costituita per gli adulti dagli avanzi della sera prima (olive, capperi, uova, un po’ di formaggio, pane e miele). Per i bambini da latte e focaccine”.

Quelle citate da Marziale.