Le terre del vino più famose sono spesso anche le meno conosciute. Sembra un paradosso e non lo è: la stratificazione di luoghi comuni che ricopre ogni celebre area vinicola ne altera i lineamenti, confonde la verità dei fatti con i pregiudizi (positivi o negativi che siano), immerge in una nebbia lattiginosa il panorama reale.
Vale per territori italiani che si contano sulle dita di una mano: le Langhe, Montalcino, il Chianti, poco altro.
Nessuna terra del vino del nostro Paese è famosa da più tempo del Chianti. Su questo non ci piove. Le prime testimonianze documentali sul vino chiantigiano risalgono almeno al Medioevo e le lasciamo lì dove sono, per evitare di ripercorrere stancamente il polveroso repertorio dei relativi aneddoti storici (i cavalieri che partono al canto del gallo per individuare i confini tra le due città, et similia).
Meno scontato forse è guardare a un primo asse identitario del territorio chiantigiano, quello cui accenna acutamente Filippo Cintolesi, che produceva – e magari produce tuttora – un verace Chianti nel suo Podere Erbolo, presso Gaiole: “Il Chianti è cerniera di confine. Terra di attriti, da sempre. Rimanendo a tempi relativamente recenti (diciamo successivi al crollo dell’impero romano) attrito fra diocesi diverse (quindi, sembrerebbe di imparare, risalente a una cerniera fra lucumonie etrusche diverse), quella aretina e quella fiesolana. Ecco la vera dicotomia chiantigiana: un Chianti aretino e un Chianti fiesolano”.
Greve, Panzano, Radda, per citare solo tre dei borghi chiantigiani più illustri, sono amministrativamente fiorentini (i primi due) e senese (il terzo), ma non sono estranei all’attrazione di Arezzo, con naturale sguardo – appena velato dai modesti rilievi dei monti del Chianti – verso il Valdarno superiore. E trovandosi a poca distanza, per dire, da San Giovanni e Montevarchi.