manteniamo
le distanze

Valerio M. Visintin

Non sarà un Natale come gli altri. È questa l’unica certezza che ci rimane tra le dita, dopo aver creduto di afferrarci a una nuova normalità. Il presente si comporrà giorno per giorno. Ma è chiaro che, per quest’anno, dovremo prendere le distanze anche da molte delle nostre certezze natalizie. Persino le più resistenti e durature; le più familiari, nell’accezione stretta del termine; le più conservative, nel senso che ci hanno ricondotto ogni anno a un quadro immutabile di azioni e di umori.

Intendo dire che non vedremo più quei ridenti, edificanti grumi di parenti stretti attorno alla sacra liturgia di una tavola imbandita.

Noi, da qualche annetto, ci riunivamo nell’appartamento di una zia. Vive sola, dopo un tumultuoso divorzio giunto in età senile. È una professoressa di liceo in pensione. Ed è appassionata di brocantage. O almeno credo, visto che la sala da pranzo è un museo di cianfrusaglie: ninnoli in porcellana, oggetti di antica civiltà rurale, pizzi, cappelli, collane, quadri di paesaggi marini oppressi da cornici scure e nodose. Ho compreso le buone ragioni del suo ex marito, quando ha cominciato a familiarizzare con me, dopo lustri di salvifico disinteresse. A un pranzo di Natale, all’improvviso, ha deciso che mi sarei appassionato alla sua collezione di cartoline. E ogni anno confortava tale convinzione, convocandomi in un salottino per mostrarmele nuovamente. L’ultima volta ho messo in atto un astuto escamotage allo scopo di ridurre la pena. Ma la zia non ha gradito. È uscita dalla stanza borbottando che non è normale, per un uomo di cinquant’anni, addormentarsi durante una conversazione privata con una signora.

Ho indugiato, prima di fingere il risveglio e alzarmi dal divano. Sentivo i suoni della festa arrivare sino a me con moto ondoso. Giocavo a immaginare la sala da pranzo, allegra come un negozio di ortopedia, i sorrisi dipinti degli invitati, le sedie attorno alla tovaglia di organza bianca.