manteniamo le distanze Valerio M. Visintin Non sarà un Natale come gli altri. È questa l’unica certezza che ci rimane tra le dita, dopo aver creduto di afferrarci a una nuova normalità. Il presente si comporrà giorno per giorno. Ma è chiaro che, per quest’anno, dovremo prendere le distanze anche da molte delle nostre certezze natalizie. Persino le più resistenti e durature; le più familiari, nell’accezione stretta del termine; le più conservative, nel senso che ci hanno ricondotto ogni anno a un quadro immutabile di azioni e di umori. Intendo dire che non vedremo più quei ridenti, edificanti grumi di parenti stretti attorno alla sacra liturgia di una tavola imbandita. Noi, da qualche annetto, ci riunivamo nell’appartamento di una zia. Vive sola, dopo un tumultuoso divorzio giunto in età senile. È una professoressa di liceo in pensione. Ed è appassionata di brocantage. O almeno credo, visto che la sala da pranzo è un museo di cianfrusaglie: ninnoli in porcellana, oggetti di antica civiltà rurale, pizzi, cappelli, collane, quadri di paesaggi marini oppressi da cornici scure e nodose. Ho compreso le buone ragioni del suo ex marito, quando ha cominciato a familiarizzare con me, dopo lustri di salvifico disinteresse. A un pranzo di Natale, all’improvviso, ha deciso che mi sarei appassionato alla sua collezione di cartoline. E ogni anno confortava tale convinzione, convocandomi in un salottino per mostrarmele nuovamente. L’ultima volta ho messo in atto un astuto escamotage allo scopo di ridurre la pena. Ma la zia non ha gradito. È uscita dalla stanza borbottando che non è normale, per un uomo di cinquant’anni, addormentarsi durante una conversazione privata con una signora. Ho indugiato, prima di fingere il risveglio e alzarmi dal divano. Sentivo i suoni della festa arrivare sino a me con moto ondoso. Giocavo a immaginare la sala da pranzo, allegra come un negozio di ortopedia, i sorrisi dipinti degli invitati, le sedie attorno alla tovaglia di organza bianca. “Ma Valerio dov’è?” “Dorme in salotto.” “Ma è tutto pronto!” “Lasciamolo dormire, dai, è tanto stanco. E poi, sai, lui mangia solo per lavoro…” Santa la mia Caterina, che mi protegge. Dal divano, con gli occhi chiusi, mi concentravo sulle voci, cercando di collocarle attorno al tavolo. Al capotavola più prossimo alla cucina, il timbro veneto di Toni, detto Antonio da chi non gli vuol bene (cioè, da me). Un uomo di onnisciente ignoranza. Non legge un libro dall’epoca del sussidiario elementare, ma impartisce lezioni su qualsiasi materia. È anche uno dei più grandi cuochi del mondo, naturalmente. Perciò, si occupa del menu. È stata un’espansione graduale, cominciata con la conquista degli antipastini di benvenuto. Un paio, la prima volta. Quattro, l’anno successivo. Otto, quello appresso. E così via, sino a scalzare i ravioli e l’arrosto della zia. La quale, per altro, spacciava per suoi i piatti acquistati nel reparto gastronomia del supermercato. Bello restare immobile sul divano, il corpo morbido, abbandonato sui cuscini; la mente tesa a cogliere i suoni e tradurli in immagini. Ecco le voci acerbe, post adolescenziali, di Paola e Matteo, figli di un cugino. Paola è vegana a intermittenza. Lo scorso anno, era in fase attiva e tormentava la tavolata a ogni forchettata. Matteo è un giovane pieno di risorse nascoste, che parla con la esse sibilante e le vocali tutte aperte come Miss Keta. Parla? Ho esagerato. Diciamo che esclama: “Super, ke sbatti, pazzascooo”. Arrivano le prime portate e aguzzo l’udito per cogliere i commenti. Prima del dolce, c’è il classico giro di barzellette. Ascoltate dal divano del salotto, in una veglia rarefatta, hanno una sonorità surreale. I racconti seguono tutti il medesimo andamento ritmico, le risate sono identiche e monocordi. Più vivaci le intonazioni delle liti politiche che montano a fine pasto, animate dal progresso alcolico dei partecipanti. “Particolare questo gorgonzola con polvere di caffè.” “Molto, sì, particolare. Anche l’orecchietta fritta con la ’nduja alla liquirizia.” Toni è un cuoco molto creativo. Il detonatore è un commento vago sulla situazione economica. Poi, prevalgono gli strepiti, i “lasciami finire” di Antonella e Gaia. I “di che stiamo parlando?” esplosi a cannonate da Beppe, sistemato sul lato opposto della tavola. I “non sta bene litigare a Natale” della zia. A questo punto, nessuno sapeva più nulla di me. Della mia esistenza passata e futura, intendo. E forse questa è la morale delle tavolate di Natale. Occorrono per abituarci a contare i presenti, senza soffermarsi sui volti che vengono a mancare, di anno in anno. In questo 2020 non avrei potuto trascorrere un altro Natale di tanatosi sul divano della zia, tra cartoline e ciarpame da rigattiere. Avrei avuto la fortuna di godere le meraviglie della convivialità familiare a tavola con gli altri. E allora? Allora, prego chi sta lassù, a fare i conti per tutti, di cacciare al più presto questo virus e restituirci le vite - imperfette, ma nostre - che avevamo sino a un anno fa. Però, per favore, il 25 dicembre dell’anno a venire, dacci ancora il nostro distanziamento quotidiano.