Il Saccharomyces cerevisiae, lievito vinario per eccellenza, ha distolto l’attenzione da altre specie e ceppi che possono contribuire a incrementare l’intensità e la complessità del profilo sensoriale dei vini.
fermenti
Francesca Zaccarelli
Il mosto facilita la crescita di svariati microrganismi presenti nell’ambiente, in particolare sugli acini e nelle cantine; il suo basso pH (da 2,7 a 3,5) e il considerevole contenuto di fruttosio e glucosio (circa 200 g/l) esercitano tuttavia un’azione selettiva sulle popolazioni microbiche che proliferano al suo interno.
Nell’antichità non c’era consapevolezza di questo presupposto: il mosto era fatto fermentare in modo spontaneo, sperando in un risultato finale soddisfacente. In epoca moderna il progresso scientifico e l’invenzione del microscopio hanno permesso di identificare la causa della fermentazione nei lieviti: organismi monocellulari che, con il loro metabolismo e i loro enzimi, catalizzano la trasformazione degli zuccheri in alcol e in altre sostanze.
La situazione è molto più complessa. Il processo fermentativo genera condizioni che contribuiscono a una maggiore pressione selettiva, inibendo i microrganismi incapaci di concorrere e sopravvivere alla fermentazione. Questo perché sparisce l’ossigeno, i nutrienti si esauriscono e la concentrazione di etanolo aumenta. La fermentazione è perciò un processo polimicrobico, ma competitivo, che vede lo sviluppo consequenziale di protagonisti diversi, sostituiti via via da altri attori più forti. Alcuni lieviti indigeni dei generi Hanseniaspora (Kloeckera), Pichia, Candida stellata e Metschnikowia sono generalmente presenti sull’uva matura e avviano spontaneamente la fermentazione. Sebbene siano molto numerosi, tendono a non essere abbastanza vigorosi in assenza di ossigeno (in particolare Pichia, Candida e Metschnikowia, dato il loro metabolismo ossidativo) e soprattutto a non tollerare l’etanolo: quando la concentrazione di alcol raggiunge il 4% vol., sopravvivono solo pochi microrganismi, che riescono effettivamente a convertire tutto il mosto in vino. Alle condizioni già difficili, l’uomo aggiunge solitamente un fattore ancora più discriminante, l’anidride solforosa, il cui compito è proprio quello di non permettere la proliferazione di presenze indesiderate, responsabili di ossidazioni e di eccessive quantità di acido acetico e metanolo.