la lotta
per la latta

Riccardo Antonelli

“Nelle lattine c’è solo birra di scarsa qualità”: più che un luogo comune, questo è un vero pregiudizio, associato alla birra da molti lustri. La lattina può sembrare poco accattivante, ma l’idea che vi sia un compromesso con la qualità è una logica arretrata, ancorata al preconcetto di birra di quarant’anni fa. Siamo sommelier, legati alla celebrazione del prodotto anche da un punto di vista scenico. La cerimonia che ricerchiamo quando apriamo correttamente una bottiglia di vino o di birra, con una lattina probabilmente non sortirà lo stesso effetto elegante, ma non per questo dobbiamo escludere con superficialità questa tipologia di contenitore dalla nostra selezione.

Le lattine di birra hanno sempre avuto innumerevoli fattori positivi, sia per i produttori, sia per i trasportatori, sia per i rivenditori, quindi per tutta la filiera. Diversi anni addietro, tuttavia, si notava un percettibile aroma metallico proveniente da questi contenitori. Questa differenza col vetro, unita alla freddezza emotiva dell’alluminio, fece precipitare le vendite di birra di qualità in lattina, relegando quest’ultima a classi di merchandise quasi o esclusivamente da discount. Oggi invece, grazie alle nuove conoscenze in fatto di metalli lavorati e di poliaccoppiati, le lattine non rilasciano più alcun aroma, eliminato il problema alla radice. Un ottimo passo in avanti dal punto di vista tecnologico, che vede negli ultimi tre anni (con un picco negli ultimi sei mesi) il benestare alla latta di un’enorme fetta della produzione artigianale italiana. Il consumatore attento conosce i benefici che questo contenitore può donare al nostro nettare, ma in alcuni resiste la convinzione che vi sia uno scambio aromatico indesiderato tra prodotto e packaging. Occorre inoltre cambiare la percezione che questo contenitore genera nel subconscio, un obiettivo arduo e non semplice da realizzare, sotto diversi punti di vista. Paragoniamo la lattina della birra al tappo a vite utilizzato per il vino. La maggior parte del vino prodotto (anche di ottima qualità) non è pensata per un lungo invecchiamento, dunque perché ostinarsi a utilizzare a tutti i costi per ogni tipo di vino una tipologia di tappo più costosa, più difficile da gestire, e che cela l’incognita di un difetto tristemente celebre? Non ci sono ragionevoli risposte, pertanto dobbiamo scomodare la declamata “tradizione cerimoniale” che noi, come i cugini d’Oltralpe, abbiamo nei confronti del sughero, per rifuggire dalla sterilità emotiva del tappo a vite (nonostante sia più economico, stabile nella presa, facile da utilizzare e senza problematiche di contaminazione).