“Le opinioni più superficiali convincono molti per poco tempo, pochi per molto tempo, nessuno sulla lunga distanza. Quelle basate su robuste fondamenta reali sfidano l’eternità.” Una sentenza largamente condivisibile, di cui purtroppo non ricordo l’autore; con tutta probabilità si tratta di Johann Gottlieb Fichte o del suo péndant Ludwig Feuerbach, filosofi che erano pericolosamente intercambiabili e quindi confondibili nelle interrogazioni al liceo (escludo comunque che si debba a Fred Bongusto).
Prima di procedere con il racconto di questa puntata, una premessa per agevolare la lettura. Per antica consuetudine professionale anch’io indico le uve in minuscolo (pinot nero) e i vini in maiuscolo (Pinot Nero). Non sono quindi nomi scritti a casaccio ma cercano di seguire una logica, soprattutto quando scrivo dopo aver bevuto due o tre bicchieri.
I vini provenienti dai ricchi vigneti della regione a statuto autonomo dell’Alto Adige vantano una fama consolidata. Sono da decenni apprezzati nel resto d’Italia e oltre i confini nazionali. Per molto tempo all’archetipo “vino altoatesino” si è associata una convinzione radicata, un tenace pregiudizio: il vertice della qualità è rappresentato dai rossi basati su uve cabernet sauvignon e pinot nero, e dai bianchi da chardonnay (e al massimo sauvignon). Le bottiglie ottenute da varietà tradizionali, invece, erano ritenute una seconda o terza scelta, guardate con bonaria condiscendenza. Dovrei scrivere più puntualmente da “altre” varietà tradizionali, certo, dato che anche il cabernet, lo chardonnay e il pinot nero hanno lunga dimora sudtirolese. Ma, insomma, ci siamo capiti, queste ultime tre sono classiche varietà “internazionali”, con le quali ogni vignaiolo planetario, dalla California alla Georgia, dal Sudafrica all’Australia, dalla Svizzera alla Nuova Zelanda, si misura da decenni.
Ora un numero crescente di commentatori e assaggiatori scopre – sorpresa! – non soltanto che le uve rubricate come umili ancelle dei grandi vitigni cabernet, merlot, chardonnay e sauvignon sono valide, ma che addirittura generano in molti casi vini più originali, più autentici, più espressivi. In buona sostanza: più buoni. Mi riferisco alla schiava, o vernatsch, tra i vitigni a bacca rossa, e al pinot bianco tra quelli a bacca bianca. Quest’ultima varietà, presente da secoli nel vigneto altoatesino, dimostra di avere significative risorse nel generare vini complessi all’olfatto e molto fini nello sviluppo gustativo. Vini che non hanno nulla da invidiare, una volta giunti a piena maturità, ai grandi Chardonnay nazionali e internazionali. Si tratta però di “ascoltarli” con particolare attenzione. Soprattutto da giovani, i vini da uve pinot bianco hanno infatti una peculiare attitudine a nascondersi, a eludere la vigilanza del degustatore. In speciale misura se assaggiati in batterie vicine a bottiglie più esuberanti aromaticamente, quali il Traminer, il Sauvignon o il Kerner. I Pinot Bianco di un anno si mostrano pressoché invariabilmente timidi al naso e dai lineamenti poco definiti al sapore.
Paiono bianchi quasi anonimi. Dopodiché, passati in media due o tre anni dalla vendemmia, sfoderano un allungo, un’intensità, una “classe”, si diceva un tempo, davvero notevoli. E spesso si mangiano in insalata parecchi dei Sauvignon guasconi ma unidimensionali che sembravano tanto migliori appena usciti dalla cantina.