le delizie del delivery Valerio M. Visintin Delivery? Chi è costui? Dipende. Sino all’altro ieri, nient’altro che un’alternativa relegata ai margini, nel recinto di un mercato muscolare. Un dio minore in bicicletta, specializzato in bocconi populisti, come la pizza, l’hamburger, il sushi o i panini imbottiti. Se avessimo chiesto a uno chef di rango “Fate il delivery?”, ci avrebbe risposto bruscamente, sintetizzando in una smorfia l’amor proprio offeso. “Fare il delivery? Noi? Vuole scherzare??? Assolutamente no! Usiamo soltanto prodotti italiani.” Ma con identica indignazione avrebbero replicato anche ristoranti di media cilindrata. Tutto ciò, sino a quando clausure e zone rosse non hanno rimescolato le carte, collocando l’alieno quadrisillabo al centro del sistema di sopravvivenza per quella fetta della ristorazione nazionale che opera nei centri cittadini. Oggi, si parla di delivery, ci si attrezza per il delivery, si regala il delivery ai critici e ai blogger più accoglienti. Eppure, resta ferma l’impressione che in pochi abbiano colto il corso pratico di questa potenziale via d’accesso alla clientela. Mettiamo da parte la questione dei rider e delle loro indecorose condizioni di lavoro. Tema che meriterebbe pagine esclusive di approfondimento. Riprendiamo la scena dal fotogramma successivo alla consegna. Che cosa ci arriva a casa? Ecco qualche emblematico esempio, testato sul campo in prima persona. Delivery Da montaggio Il cuoco altolocato è particolarmente sensibile. Si sa. Gli vien la pelle d’oca alla sola idea che i suoi ricami possano essere shakerati e acciaccati nel viaggio. Pertanto, ci spedisce a domicilio certe confezioni battezzate graziosamente “kit gastronomici”. Trattasi di scatole di montaggio contenenti formidabili creazioni culinarie in forma scomposta. Un sacchettino per il petto di canarino del Vulture; uno per il fondo bruno nel quale è stato cotto a lunga, bassa, smilza, grassa temperatura; uno per la crema-non-crema di trucioli della val Trompia; altre cinque plastichette per le salsine di accompagnamento, una delle quali è l’ambitissima crema di plastica. Qualche volta, sono allegate le istruzioni per l’assemblaggio. Ovviamente, incise nella plastica. Sappiate che, come per i mobili, avanza sempre qualche bullone. Delivery Star per il popolo All’improvviso, l’altero chef creativo, che ci faceva pagare 70 euro per una oliva ripiena di vecchio calzino fermentato, sorride democraticamente al popolo e si mette a spadellare frittolini “de mi mare”, bigoli “de la zia”, folpetti “de la nona” e altre pietanze domestiche. Per rendere meno traumatico il dietrofront, genera anche un nuovo logo, che si differenzi quel tanto che basta dal nome del ristorante. Il celebre chef mestrino Tony Mona, per fare un esempio, ha chiamato il suo delivery “Famiglia de Mona”, intendendo specificare, nel suo pittoresco idioma vernacolare, la cucina alla quale fa riferimento. Ovviamente, ogni portata è ben custodita in appositi astucci di plastica trasparente, marchiata con il blasone della casa in colorante E113 all’arsenico. Delivery Doggy bag È la modalità preferita dagli osti del ceto medio. I quali non credono affatto a questo sbocco commerciale. Ma lo seguono per inerzia, con non celata malavoglia. Costoro hanno acquistato sottocosto sedici bancali di vaschette d’alluminio in arrivo su un cargo battente bandiera sammarinese. A ogni ordinazione, prendono il cibo e lo sbatacchiano dentro una preziosa vaschetta, come si faceva con i doggy bag in tempo di pace. Se si supera un certo importo, in regalo un osso di gomma. Delivery Ogni cosa è alluminiata Bando alle inutili vaschette! In questa categoria ha cittadinanza soltanto gente pratica e vivacemente rude, sorda alle mollezze della modernità. Hanno acquistato a prezzo di favore ventiduemila rotoli d’alluminio, sbarcati clandestinamente da un rimorchio battente bandiera nera con teschio bianco e tibie incrociate. Con quel ben di dio, incartano tutto. Ordini sei polpette? Ecco sei palline d’alluminio. Un riso al salto? Voilà un disco anodizzato, nel quale metallo e alimento si fondono l’un l’altro indissolubilmente. Persino le zuppe vengono ingabbiate in quei cartocci, grazie all’uso di una potente spugna da strizzare al momento del consumo. Possono bastare queste macrocategorie? Direi di sì. Il rovescio della medaglia è tutto quel che non c’è, al netto di eccezioni commendevoli. Mancano progetti gastronomici studiati a misura di una fruizione diversa. Mancano confezioni sostenibili, in un’orgia di smemoratezza ecologica coltivata come un alibi, all’ombra dell’emergenza. Mancano etichette di accompagnamento, con nome del piatto, ingredienti, data di confezione. Mancano quelle attenzioni che accorciano le distanze emotive tra cliente e ristoratore: un biglietto di ringraziamenti, un piccolo cadeau, un pensiero gentile. Chiaro che siamo nel mezzo di un guado spaventoso. Ed è altrettanto lampante che ogni omissione abbia una sua umana giustificazione. Ma, come clienti, dal futuro prossimo del delivery vorremmo minor superficialità e un po’ più di passione. Mentre, come abitanti del pianeta, pretendiamo consapevolezza e responsabilità ambientale.