Delivery? Chi è costui? Dipende. Sino all’altro ieri, nient’altro che un’alternativa relegata ai margini, nel recinto di un mercato muscolare. Un dio minore in bicicletta, specializzato in bocconi populisti, come la pizza, l’hamburger, il sushi o i panini imbottiti.
Se avessimo chiesto a uno chef di rango “Fate il delivery?”, ci avrebbe risposto bruscamente, sintetizzando in una smorfia l’amor proprio offeso.
“Fare il delivery? Noi? Vuole scherzare??? Assolutamente no! Usiamo soltanto prodotti italiani.” Ma con identica indignazione avrebbero replicato anche ristoranti di media cilindrata.
Tutto ciò, sino a quando clausure e zone rosse non hanno rimescolato le carte, collocando l’alieno quadrisillabo al centro del sistema di sopravvivenza per quella fetta della ristorazione nazionale che opera nei centri cittadini.
Oggi, si parla di delivery, ci si attrezza per il delivery, si regala il delivery ai critici e ai blogger più accoglienti. Eppure, resta ferma l’impressione che in pochi abbiano colto il corso pratico di questa potenziale via d’accesso alla clientela.
Mettiamo da parte la questione dei rider e delle loro indecorose condizioni di lavoro. Tema che meriterebbe pagine esclusive di approfondimento. Riprendiamo la scena dal fotogramma successivo alla consegna.
Che cosa ci arriva a casa? Ecco qualche emblematico esempio, testato sul campo in prima persona.