A Gianni Piccoli e Luciano Piona,
grandissimi interpreti dell’anima del Custoza.
A me gli occhi. Mai sentito di un vino con poteri ipnotici? Il Custoza li ha. Fissare a lungo un ampio calice del vino bianco dei colli morenici a sud-est del Garda è come scrutare nella sfera di un mago. Ectoplasmi, spiriti del passato, personaggi antichi e moderni appaiono e scompaiono in un caleidoscopio d’immagini. Fidatevi. Ve lo dico perché è capitato a me. Probabilmente più per autosuggestione che per ipnotismo.
È difficile trovare un inizio per questo articolo. Non perché abbia poco da dire sul vino che mi ha tenuto a battesimo (sono nato a sei chilometri dal monte Torre, morena d’avanguardia verso la piana villafranchese: se il ghiacciaio del Riss avesse fatto un ultimo sforzo, ora abiterei in collina), ma perché, al contrario, ho troppo da raccontare. Il Custoza ha innumerevoli storie degne del lead – nel gergo giornalistico è l’attacco di un pezzo –, ma quando c’è tanto materiale regna l’indecisione.
Da dove partire? Dai ghiacciai? Da Catullo che produceva un vino bianco Rheticum, antenato del Custoza, che gli serviva per dimenticare Lesbia e che piaceva anche a Giulio Cesare? Dal ciclista Gianni Serpelloni che, “dopato” con due calici di Custoza, pedalò con una sola gamba scalando il Pontaròn, la ripida salita che da Villafranca porta a Custoza? O da Cesare Marchi, che in tempo di guerra non fu deportato grazie al Custoza, vino al quale ha sempre voluto un bene dell’anima? “Custoza” scrisse Cesarino con la solita, fine ironia “vuol dire anche e soprattutto il suo bianco dal profumo delicato, fragrante, dal sapore morbido e sottile, anticamente chiamato vino delle Dame, ma bevuto gagliardamente anche dalle coltivatrici dirette.”