Degustando non perdiamo la lingua
AIS Staff Writer

Negli ultimi anni si è registrata una decisa virata nel modo di degustare e raccontare il vino. Nulla di rivoluzionario all’orizzonte, rimarremo ancorati alla prevalenza dell’analisi olfattiva su quella del gusto, affermano preoccupati i fautori della degustazione geosensoriale, che desiderano recuperare il “gusto del vino”, lasciando il profumo (diretto) in una condizione di serena marginalità.

L’articolo di Sarah Heller MW, It’s time we judged Italian wine on its own terms, “È il momento di giudicare il vino italiano alle sue condizioni”, offre parecchi spunti di riflessione. Esemplificativo il sottotitolo: “Facciamo un disservizio al vino italiano se il suo apprezzamento è basato su punti di riferimento che si rifanno al Bordeaux o alla Borgogna”.

Per cogliere il senso di quest’affermazione bisogna partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando molte nazioni modellarono la propria enologia sullo stampo francese. L’Italia si accodò con intuitiva intelligenza, architettando un’enologia capace di sfociare in vini destinati a sedurre gli amanti del Bordeaux style, i Supertuscan. In questo modo si relegarono ai lati della strada mediatica molti vini da uve autoctone, non in grado, per loro natura e personalità, di seguire le normative organolettiche d’origine transalpina dominanti nelle aste mondiali del vino.


La rivoluzione nel giudicare la gradevolezza qualitativa dei vini rossi si concretizzò miscelando la base francese con l’innovazione californiana (“Giudizio di Parigi” del 1976). Si idealizzò un vino rosso con tessitura decisamente tannica, mentre il corredo olfattivo doveva caratterizzarsi per sentori di legno, note vegetali aromatiche, spezie dolci e aromi terrosi, spesso esogeni. I bianchi dovevano esprimere ancora le spezie dolci, il tostato (cocco), il creamy, il pan brioche e la tostatura del legno, mentre al gusto si preferiva una morbidezza burrosa. E il fruttato? Troppo banale per nasi cosmopoliti! I vitigni d’Italia, come nebbiolo e sangiovese, non riuscivano da soli a modellare le muscolosità che lo stampo “legnoso” dell’internazionalizzazione creava nei vini da merlot, cabernet sauvignon e syrah, quindi dovettero adattarsi a una forzata convivenza che ne spersonalizzava lo spirito organolettico, nascondendo anche le naturali trasparenze cromatiche che sono la loro essenza, per privilegiare addirittura la fittezza cromatica. Questo ha contribuito a plasmare una descrizione organolettica non autoctona, che privilegia il racconto dello stile della vinificazione e non l’anima varietale.

Ecco alcuni esempi di degustazione di vini da autoctoni italiani con lo stampo descrittivo internazionale (il corsivo può essere considerato un rimando al vitigno): “Apertura balsamica e speziata, poi un indizio di cenere, cui fanno seguito pepe bianco, erbe medicinali, legni antichi, incenso, infine qualcosa di varietale, ribes e mirtillo macerati”; “Spiccano cacao e torrefazione, seguiti da terra umida, viola essiccata, corbezzolo, pervinca, tè nero, fungo, macis, china e rabarbaro”; “Si apre con legno di cedro e macchia mediterranea, che anticipano un ricco ventaglio di ribes, sciroppo di amarena, pepe nero in grani, vaniglia, cioccolato fondente e chiodi di garofano”.


Una descrizione senza pari, italiana: “Colore rosso rubino equilibrato e brillante; bouquet di gioiosa provocazione (si alternano e sovrappongono sentori di fiori e frutti di sottobosco); sapore asciutto, di sapida allegria e consistenza; nerbo e stoffa sentiti; armonico. È come un bellissimo fiore, coglierlo non è più violenza, ma amore” (L. Veronelli, “L’Espresso”, 1990, n. 50). E un’espressione degustativa AIS (ante 1990): “Rosso rubino intenso, profumo intenso, caratteristico (pieno); sapore asciutto, caldo, un po’ tannico, robusto, vivace, armonico”. Non s’intende che quella sintesi da disciplinare, di cui l’AIS aveva acconsentito a coglierne il riassunto, sia l’alternativa all’odierno racconto, ma segnala da dove siamo partiti; visto il traguardo raggiunto, lo sviluppo è d’incomparabile efficacia.

Nel vino bianco siamo stati meno contaminati dalle aggettivazioni internazionali, e forse per questo motivo sono stati i vini rossi ad affermarsi nel mondo. Alcuni esempi: “Nette sensazioni di melissa, mela verde, litchi, melone, lime e bergamotto, un alito di fiori di sambuco”. Attenzione, non è un Gewürztraminer ed è anche maturato in legno. Oppure: “Impronta olfattiva floreale, con sentori di gelsomino e fresia, fiori di acacia e di tiglio, seguono cenni di pesca bianca e mela renetta, poi timbri di mandarino e arancia”. Si potrebbe obiettare che il rosso matura in legno più del bianco e ciò creerebbe quelle espressioni; allora eccovi un bianco rimasto 12 mesi in barrique: “Camomilla, mimosa e tarassaco, concede vividi ricordi di mentuccia e zenzero, pepe bianco e zafferano (questo per un po’ di appassimento delle uve), anice, mandorla e albicocca con scorza d’arancia”.

Una lettura critica e asettica, depurata dalle reminiscenze delle spremute organolettiche angloamericane che puntano più sulla graduatoria dei numeri che sui valori naturali del vitigno, ci convince che il vino italiano debba essere indagato e descritto con un criterio a lui adeguato, che rispetti la natura locale dei nostri straordinari vitigni.


L’accreditamento internazionale delle nostre cultivar deve passare dallo sviluppo di un racconto del vino che sia l’espressione della nostra lingua, che attinga da un’analisi organolettica non indirizzata alla comparazione con gli altri stili, anche se più diffusi e ormai quasi stancamente monotoni, e sia quindi un racconto (de)gustativo mediterraneo, colorato in brillantezza, trasparente nella sostanza, come lo sono le tinte di moltissimi nostri vini; che faccia emergere l’appeal della fragranza fruttata e floreale mancante a molti internazionali (rossi in primis). Dovrà essere un punto di orgoglio per il sommelier raccontare il soul selvatico dei piccoli frutti rossi e neri di ruchè, lacrima, nerello mascalese, tintilia, pignolo, piedirosso, per citare alcuni vitigni, utilizzando termini che italianizzino il fluire organolettico, per raccontare profumi e gusti a chilometro zero.