Nobile di nome
e di fatto

Roberto Bellini

Il nome è altisonante e la sua lunga storicità fa immaginare una favola dorata. Invece al Vino Nobile di Montepulciano non è andato tutto liscio. Questo non riguarda la qualità del vino, ma il rammarico di non essere riusciti a scalare velocemente i gradini di una visibilità che aveva radici storiche da mettere in campo e che andava preservata a tutti i costi. Di fatto, è un vino che sembra girare su sé stesso, come a proteggersi da quelle realtà viticole che hanno fatto capolino prima di lui sulle scene dei mercati mondiali senza possedere il suo ricco pedigree. Non sembra sia stato nemmeno digerito l’amaro boccone della diatriba con il Montepulciano d’Abruzzo, il cui provvedimento avverso ha intaccato e rallentato il revival che si era messo in moto.

La cronologia storica è un bellissimo biglietto da visita. Se si riuscisse a spenderlo in modo lucido, per il comparto del Nobile sarebbe una strategica freccia per centrare il cuore del bersaglio, o meglio fare di un bersaglio commerciale il proprio cuore. Il cuore (vino) di quel mons Policianus, progenitore dell’attuale Montepulciano, ha pulsato fin dall’epoca etrusca, pur senza concrete testimonianze in merito. Infatti, si deve giungere alla fine del Settecento per avvalorare la presenza della viticoltura. In quegli anni le viti dell’areale, racconta il naturalista Giorgio Santi, erano condotte anche a vigna fitta e bassa e la quantità prodotta, seppur inferiore a quella della vite maritata, aveva il vantaggio di offrire un’uva più matura, che regalava più alcol al vino, garantendo prospettive di longevità. Questo settore agricolturale assicurava un certo beneficio economico, ma la trappola era dietro l’angolo, con la Bonifica Lorenese in val di Chiana. Crebbe l’attenzione verso le fertili terre bonificate, dove si poteva sviluppare l’allevamento del bestiame (è la patria della pregiata Chianina); inoltre, la coltivazione di grano e altri cereali era più facile e fruttuosa rispetto a quella effettuata sui pendii collinari intorno a Montepulciano. Ciò non portò all’abbandono dei vigneti, ma a un minor interesse proprio quando, di lì a poco, nella viticoltura toscana si sarebbero registrate la nascita del Brunello di Montalcino e la creazione dell’uvaggio del Chianti: due concorrenti per il Vino Nobile di Montepulciano. La difesa qualitativa del vino di Montepulciano, come scrive Emanuele Pellucci in Vino Nobile di Montepulciano (1998), fu portata avanti dalle famiglie Bucelli, Bracci, Svetoni, Guidarelli, Ricci e da quel Giuseppe Contucci che distingueva il suo vino in “andante”, “vino nobile” e “vermut”, anticipando quella filosofia di “secondo vino” che richiama al Médoc e che oggi potremmo apparentare al Rosso di Montepulciano. Purtroppo, i loro sforzi non riuscirono ad arginare la deriva qualitativa innescatasi, che fece clamore (in negativo) alle Esposizioni Universali di fine Ottocento, tra le rare occasioni di presentarsi al commercio mondiale.