È difficile stabilire se nella Firenze del Trecento si mangiasse a sufficienza, ma di certo la dieta del popolo era diversa da quella dei magnati e dei nobili. La gente comune mangiava due volte al giorno: al mattino, fra le 9 e le 10, c’era il desinare e alla sera la cena, in cui spesso si finivano gli avanzi. I pasti erano semplici e frugali: zuppe con legumi e verdure, nei giorni festivi talvolta la carne, bollita o arrosto, il venerdì in genere ancora ceci e verdure, il tutto accompagnato dal pane, che di rado era bianco. Il pane per i popolani era composto di farine d’orzo e di altri cereali minori, raramente di frumento, nonostante costituisse la base principale dell’alimentazione: da qui la definizione di “companatico” per le pietanze che, appunto, lo accompagnavano. I ricchi, invece, mangiavano tre volte al giorno: il desinare, la cena e la merenda a metà giornata. Oltre al pasto pomeridiano, notevoli differenze riguardavano le pietanze: le tavole magnatizie prevedevano quasi quotidianamente il consumo della carne, bianca o rossa, oltre alla cacciagione proveniente dai possedimenti nel contado e l’utilizzo delle spezie e del sale, sottoposto a gabelle altissime – ovvero “salatissime” – da parte del governo cittadino. Un altro elemento di divario era il vino; solo i signori potevano permettersi di bere vini ricercati, prodotti anche in luoghi lontani, o consumarli senza allungarli con l’acqua, oppure evitare sottoprodotti enologici come l’acquerello, ottenuto facendo fermentare per alcuni giorni le vinacce con l’aggiunta di acqua.