buon APPetito Valerio M. Visintin “Torneremo migliori di prima.” Sotto la brace cocente dell’emergenza sanitaria abbiamo coltivato l’illusione di un imprecisato riscatto collettivo, come l’uomo solo che fischietta nel buio per farsi coraggio. Un abbaglio scoloritosi al confronto con la realtà, nelle pause di relativa tregua ritagliate tra una variante e l’altra del virus. La speranza non muore mai, è vero, ma ha spesso delle idee cretine. E la ristorazione? Ha tratto insegnamenti dalle traversie degli ultimi mesi? Ha ritarato i suoi equilibri? Di sicuro, qualcosa è cambiato. Tanto per cominciare, è andato in pensione il menu. Si registra ancora soltanto qualche sporadica presenza, in attesa di un’ultima ondata che ne cancelli il ricordo. Ma voi ve lo rammentate il menu? Era una cartelletta in cartoncino o in similpelle, una brochure prestampata o un foglio in A4. Patetici residui del passato. Oggi, abbiamo il QR Code da inquadrare nel mirino del nostro telefonetto. Grazie a questa trovata dell’umano ingegno, si spalancano le porte di una lista virtuale in miniatura, che i clienti meno giovani dilatano e restringono ossessivamente pigiando con le dita sul display e strizzando le palpebre dietro le lenti degli occhiali. Ci dicono sia una scelta dettata da precauzioni igieniche e la accettiamo di buon grado, anche quando il codice è stampato su un foglio in A4, su una piccola brochure o su un cartoncino protetto in una custodia di plastica che passerà di mano in mano, esattamente come accadeva fino a ieri con i menu. Un’altra novità di significativo rilievo riguarda soprattutto i centri urbani più popolosi. Mi riferisco alla tracimazione dei ristoranti al di fuori delle loro sale, con conseguente invasione di marciapiedi, piazze e strade. Questa fioritura, benedetta dalle amministrazioni comunali, ha generato problemi di ordine pubblico, con particolare aggravio in quelle aree prescelte dai giovani per la quotidiana razione di sballo notturno. Ma ha influito anche sulla serenità dei comunicatori del food, alle prese con un arcano termine di foresto idioma: “dehors”. Il più delle volte, l’ho visto scritto in un immaginario singolare: “dehor”. Non è raro, tuttavia, che l’errore ortografico sia accompagnato da aggettivi spiazzanti. “Un dehor esterno.” O, peggio: “Un dehor interno.” Come se dehors non significasse “al di fuori”. Poi, c’è il problema dei prezzi, che in qualche città (Milano, per esempio) sono cresciuti del 10/15 per cento. Una lievitazione dettata da un generale regresso economico e commerciale, interpretato con superficialità lungo tutta la filiera agroalimentare, sino alla cassa del ristoratore. Il quale un po’ è vittima delle imposizioni dettate dai fornitori, un po’ della propria pigrizia. E questa non è una novità. Nel frattempo, si stanno incagliando i meccanismi del servizio, affidato sempre più spesso ad avventizi in ripiego e in attesa di un’occasione migliore. Su questo specifico tema, abbiamo letto fiumi di parole. Dalle accorate lamentazioni degli imprenditori, che non trovano più giovani rinforzi per i loro esercizi. Ai commenti di sociologi dell’ultimissima ora, che rimproverano ai giovani una tenue predisposizione al sacrificio. Ragazzi che preferiscono sollazzarsi sfaccendati, lucrando sul reddito di cittadinanza. Ragazzi che si dedicano soltanto a lavoretti saltuari purché siano poco impegnativi. Ragazzi d’oggi che pretendono tutto e subito. Ragazzacci che si arrogano il diritto di accettare o meno un’offerta di impiego sulla base del compenso proposto e delle relative ore di lavoro. Teppistelli che non capiscono che lo sfruttamento è un dovere morale al quale assoggettarsi col sorriso. Nessuno, però, si è mai domandato perché, parlando di camerieri e personale di cucina, si faccia riferimento soltanto ai giovani. E per quale motivo non si vedano mai camerieri sopra i quaranta, nemmeno nei ristoranti d’alto bordo. A meno che non si tratti di insegne di lunghissimo corso. Altre innovazioni? Ce n’è una alla rovescia. Una retromarcia. Con la dismissione dei lockdown (speriamo per sempre), l’attività del servizio di delivery ha fatalmente ridotto la sua propulsione commerciale, retrocedendo ai settori gastronomici storicamente più vocati al domicilio: hamburger, sushi, pizze e cineserie. Infine, allungando lo sguardo sul futuro prossimo, si intuiscono i primi sintomi di una nuova forma di alienazione. Fino a ieri, era possibile telefonare a qualsiasi ristorante per prenotare o per chiarire eventuali dettagli. Oggi, si tende ad abolire questa via di comunicazione diretta. Le prenotazioni viaggiano on line, attraverso moduli da compilare. Mentre i numeri telefonici si stanno lentamente estinguendo, se non suonano a vuoto a tutte le ore del giorno. Vi domandate come mai? È un mistero. Ma vi riporto il dialogo surreale con un neo ristoratore, che ho raggiunto telefonicamente in seguito a incredibile trafila burocratica. “Davvero non avete il telefono?” “Si perde un sacco di tempo a rispondere.” “E se un cliente volesse qualche informazione?” “Ci scrive una mail.” “Ma se è urgente? Se la richiesta è complicata da formulare per iscritto? Se, per qualsiasi ragione, il cliente avesse necessità di comunicare con voi? Come diavolo fa?” “Se proprio deve, viene qui, mi chiede il numero di telefono personale. E poi mi chiama.”