“Torneremo migliori di prima.” Sotto la brace cocente dell’emergenza sanitaria abbiamo coltivato l’illusione di un imprecisato riscatto collettivo, come l’uomo solo che fischietta nel buio per farsi coraggio. Un abbaglio scoloritosi al confronto con la realtà, nelle pause di relativa tregua ritagliate tra una variante e l’altra del virus. La speranza non muore mai, è vero, ma ha spesso delle idee cretine.
E la ristorazione? Ha tratto insegnamenti dalle traversie degli ultimi mesi? Ha ritarato i suoi equilibri? Di sicuro, qualcosa è cambiato. Tanto per cominciare, è andato in pensione il menu. Si registra ancora soltanto qualche sporadica presenza, in attesa di un’ultima ondata che ne cancelli il ricordo. Ma voi ve lo rammentate il menu? Era una cartelletta in cartoncino o in similpelle, una brochure prestampata o un foglio in A4. Patetici residui del passato. Oggi, abbiamo il QR Code da inquadrare nel mirino del nostro telefonetto. Grazie a questa trovata dell’umano ingegno, si spalancano le porte di una lista virtuale in miniatura, che i clienti meno giovani dilatano e restringono ossessivamente pigiando con le dita sul display e strizzando le palpebre dietro le lenti degli occhiali. Ci dicono sia una scelta dettata da precauzioni igieniche e la accettiamo di buon grado, anche quando il codice è stampato su un foglio in A4, su una piccola brochure o su un cartoncino protetto in una custodia di plastica che passerà di mano in mano, esattamente come accadeva fino a ieri con i menu.
Un’altra novità di significativo rilievo riguarda soprattutto i centri urbani più popolosi. Mi riferisco alla tracimazione dei ristoranti al di fuori delle loro sale, con conseguente invasione di marciapiedi, piazze e strade. Questa fioritura, benedetta dalle amministrazioni comunali, ha generato problemi di ordine pubblico, con particolare aggravio in quelle aree prescelte dai giovani per la quotidiana razione di sballo notturno. Ma ha influito anche sulla serenità dei comunicatori del food, alle prese con un arcano termine di foresto idioma: “dehors”. Il più delle volte, l’ho visto scritto in un immaginario singolare: “dehor”. Non è raro, tuttavia, che l’errore ortografico sia accompagnato da aggettivi spiazzanti.
“Un dehor esterno.”
O, peggio: