“Il Carso è un paese di calcari e di ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni, scontorti, fenduti, aguzzi. Ginepri aridi. Lunghe ore di calcare e di ginepri. L’erba è setolosa.
Bora. Sole.” Chi sceglie di perdersi nei sentieri del Carso, ruminando le immagini che Scipio Slataper ci ha regalato nel libro Il mio Carso, ha solo l’imbarazzo della scelta. Può scoprire il rosso del sommacco d’autunno o provare le asperità della pietra carsica, avventurandosi su ghiaioni e bassi crinali dove osano solo cinghiali e qualche lupo. Può cercare scampoli di storia dell’età del Bronzo, quando i castellieri erano gli unici insediamenti a contrastare le folate della bora. O può lusingare naso e palato scoprendo la tempra di alcune vignaiole – produttrici e imprenditrici vitivinicole – e dei loro vini, che fondono creatività, resilienza e passione.
Da San Dorligo della Valle a Samatorza, passando per Sant’Antonio in Bosco e Sgonico, ci sono sì e no venti chilometri a volo d’uccello. Eppure, questo lembo di Friuli Venezia Giulia, già un po’ sloveno nell’animo, esibisce ambienti pedoclimatici variegati, regalando vini sorprendentemente maturi insieme a giovani promesse. Il terroir difficile, però, sarebbe nulla senza la chiara visione del futuro e del proprio vino che possiedono queste donne.
Prendiamo l’azienda di Elena Parovel: tredici ettari in parte terrazzati in località Caresana, a San Dorligo della Valle, esposti a sud-ovest e frustati dalla bora, non umidi, anzi con problemi di siccità.
Figlia d’arte, Elena – in vigna dal 1991, appena ventenne – ha ereditato con il fratello Euro filari di malvasia istriana, refosco e sémillon. E ha puntato tutto su quello che per lei era il cavallo vincente, mentre per molti era solo un vino da osteria, la malvasia istriana, per diversificarla e renderla attuale: “La mia famiglia ha prodotto le prime bottiglie negli anni Settanta, e anche quando tutti piantavano vitigni internazionali, come sauvignon e chardonnay, siamo rimasti fedeli alla nostra idea. Per fare della nostra malvasia un vino di livello abbiamo continuato a lavorare: la vigna storica ha oltre settant’anni, sta nella Barde, la parcella che dà il nome anche a una linea. La curiamo rispettando il terreno, con sistemi di lotta integrata: da sei anni usiamo un’alga nordica come antiparassitario, insieme a zolfo e rame per oidio e peronospora”.