vicini di Clos Fabio Rizzari C’è stato un tempo in cui gli uomini vivevano senza guerre, senza bisogno di leggi, senza coltivare la terra – poiché essa offriva frutti in abbondanza – e senza necessità di case o ripari, nel tepore di un’eterna primavera. Per la mitologia romana era la leggendaria età dell’oro, l’ in cui tutto galleggiava in una sospensione temporale felice. In quel tempo la Borgogna non era stata ancora risucchiata nel Pantheon delle figure culturali iconiche, come La Gioconda, la Quinta di Beethoven, il Taj Mahal. Era una semplice regione vinicola. Il lettore giovane che oggi sente aumentare il battito cardiaco al solo nome di Vosne-Romanée provi a immaginare come poteva apparire la Borgogna trenta o quaranta anni fa: nessuna divinità in forma di cru, nessuna luce accecante dalle etichette che costringesse all’uso degli occhiali da sole. Nessun divo in forma di vignaiolo, con tanto di manto di ermellino e scettro. Solo una semplice regione dove si coltiva la vigna e si fa vino. A quella remota epoca serena occorre rifarsi, senza fanatici che ti rovinano la serata discettando su quale cru di D’Angerville sia più longevo, o sul perché il produttore x “è passato al grappolo intero”, o come mai “la 2009 convince meno della 2010 nella parte mediana del Clos Vougeot”, per immaginare un panorama borgognone non contaminato dall'eno-gastrofighettismo imperante oggi. Come dite? Anche in questa serie di articoli sui “vini confinanti” si discetta di singoli cru, diraspatura, carattere delle annate? Vero. Ma conta l’angolazione prospettica. “La pornografia è l’erotismo degli altri”, affermava lo scrittore e regista francese Robbe-Grillet. È facile, quindi: se lo dico io (io enofilo, giornalista, enotecario, distributore, importatore, eccetera), è analisi critica; se lo dicono gli altri, è enofighettismo. aurea aetas Con questa simpatica distinzione in mente, possiamo procedere a osservare due vigneti/vini confinanti in Côte de Nuits, uno famoso, l’altro per nulla. Due rossi che hanno consonanze ovvie, ma anche differenze significative nell’impianto stilistico, nella struttura, nell’articolazione dei profumi e dei sapori. Il che, da un lato, conferma il mistero palpabile – palatabile – della Borgogna: le personalità molto distinte di vigne divise da poche decine di metri. Dall’altro, non estromette da questo schema classico l’importanza della “mano” del vignaiolo vinificatore, decisiva nell’interpretare la partitura della singola vigna. Il primo attore è il Clos de Lambrays, grand cru dalla fama qua e là appannata, ma sempre estremamente rispettato nella nomenclatura dei migliori vigneti della regione (e dell’intera Francia). Il vigneto ricade amministrativamente nel comune di Morey-Saint-Denis e si estende per circa otto ettari e mezzo. In significativa pendenza, che arriva a sfiorare il 14% (come una dura salita del Tour de France), è suddiviso in tre sezioni interne (Les Larrets, Les Meix Rentier, Les Bouchots). Le sue vicissitudini storiche sono ancora più aggrovigliate della media, già significativamente complessa, dei cru borgognoni. Il cippo in pietra che ne segnala il nome al passante riporta la remota data del 1365, anno in cui veniva curato dai soliti e ubiqui monaci cistercensi. Non ne ripercorrerò gli snodi successivi, perché richiederebbero un’ampia trattazione; basti sapere che nel corso dei secoli è stato suddiviso in decine di parcelle diverse e poi ricostituito in un’unità, con un andamento a fisarmonica. In epoca moderna e contemporanea non c’è dubbio che il proprietario più significativo per la “scolpitura” del modello stilistico del vino del Clos de Lambrays sia stata Renée Cosson. Parigina, ricca proprietaria di banca, eccentrica, riservata sino a sfiorare la misantropia, madame Cosson ha gestito la tenuta dal 1938 fino alla sua dipartita, nel 1977. “Gestito” non è probabilmente il termine più appropriato, visto che nei decenni cossoniani il Clos è stato pressoché abbandonato a sé stesso: fallanze progressive in vigna (che pure contava fino agli anni ’60-’70 preziosi ceppi su piede franco, ahinoi), attrezzature di cantina sempre più inadeguate, a partire dall’uso di botti di legno di trecentesimo o quattrocentesimo passaggio. Nonostante questa noncuranza, che spesso è trascesa in colpevole trascuratezza, madame Cosson ha firmato alcune delle edizioni più leggendarie del Clos de Lambrays. A cominciare da quello che tutti – tutti tra i pochi fortunati ad averlo bevuto – considerano un conseguimento assoluto, il rarissimo 1945. “Impressionante, niente di meno che impressionante”: così lo ricorda un pluridecennale collega, Gianni Fabrizio. Ma anche altre annate del periodo cossoniano sono giudicate tra le bottiglie più magiche dell’intera Borgogna, quali il 1947 e il 1959. Il vino dell’epoca è descritto dallo storico palato di Michael Broadbent come “virtually opaque, massive nose, high alcoholic content, incredibly sweet” (praticamente opaco, naso massiccio, alto contenuto alcolico, incredibilmente dolce, 1945); “very deep, intensely rich” (molto profondo, intensamente ricco, 1947). Un Borgogna potente e avvolgente, dunque, più che una fragile trina. Ovviamente, in annate meno calde le note di assaggio virano su descrittori meno entusiastici: “molto pallido nel colore”, “fresco e a tratti citrino” suggeriscono anzi un deficit di maturazione o comunque una scarsa attenzione al materiale vegetale che confluiva in cantina. Nel 1943 il vigneto è classificato come premier cru, status che sarà promosso a grand cru solo nel 1981. Nel frattempo, madame Cosson è andata ai Campi Elisi e il Clos è passato nelle mani di un gruppo di proprietari, Roland de Chambure e i fratelli Fabien e Louis Saier, cui si è aggiunto a stretto giro Thierry Brouin. Quest’ultimo è il principale artefice della rinascita di Clos de Lambrays e del suo traghettamento nella modernità. Al suo arrivo, nel 1980, il domaine versa in uno stato di completo disarmo: edificio principale in semi-rovina, vigneto abbandonato a sé stesso, attrezzature di cantina vecchie di decenni. Con una lenta e paziente opera di restauro, Brouin lo riporta al livello che gli è storicamente più consono, quello di un grand cru dalla personalità complessa, a tratti chiaroscurale, sempre comunque intrigante. Si giunge così al periodo contemporaneo: dopo una fugace parentesi in mano a una famiglia tedesca, i Freund, dal 2014 fa parte del grasso portafoglio del gruppo LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy). Nonostante i diversi passaggi di proprietà, il vino è stato seguito per decenni dalla stessa équipe tecnica, guidata da Brouin, il quale ha passato il testimone a Boris Champy soltanto nel 2018. Un passaggio breve, dal momento che dopo pochi mesi il megaproprietario Bernard Arnault lo ha sbrigativamente rimpiazzato con Jacques Devauges, un talentuoso tecnico in precedenza al Domaine de l’Arlot e al confinante Clos de Tart. Devauges è un sostenitore della vinificazione con i raspi e non ama affatto il legno nuovo: ciò che dovrebbe, almeno sulla carta, affinare ancora di più il profilo del grand cru. Che è sì in media un rosso raffinato, capace di un’ampia tavolozza aromatica e gustativa, ma che risulta anche ombroso come un purosangue. In certe annate, come la 2001, può infatti prevalere un timbro terroso, “scuro”, tannico; in altre invece un carattere aereo, floreale, molto distante dalla carnosa pienezza del vicino Clos de Tart. Il confinante di cui qui si parla non è Clos de Tart, che da sempre tratta Lambrays da pari a pari e che divide i filoborgognoni in due fazioni (“meglio Lambrays, più fine”, “no, meglio Tart, più ampio e vellutato”). È invece una tenuta quasi altrettanto ricca di storia, ma solo sfiorata dalle luci della ribalta che illuminano i grand cru borgognoni: il domaine Chantal Remy a Morey-Saint-Denis. L’edificio, un elegante corpo di fabbrica di stile austero, ospita da generazioni la famiglia Remy. Attraverso le inevitabili suddivisioni ereditarie, l’assetto proprietario attuale è guidato da Chantal e dal figlio Florian, e accoglie poco meno di quattro ettari, con porzioni in vigne celebratissime: Chambertin, Latricières-Chambertin, Clos de la Roche. Madame Chantal è una persona di rara gentilezza, e – merce ancora più introvabile nel mondo del vino, dove molti si sentono Michelangelo Buonarroti – anche di rara modestia e discrezione. Le parcelle illustri del domaine meritano senz’altro una visita, ma è il giardino interno della casa di Place du Monument 1, in pieno centro a Morey, che riserva la scoperta più sorprendente. Qui in passato erano presenti alcuni filari di vite, secondo un’usanza non così insolita in Borgogna. Il nonno di Chantal aveva però preferito spiantarli, per rimpiazzarli con un roseto (e con un campo da tennis). Nel 2000 Chantal e la madre hanno quindi deciso di rimettere a dimora del pinot nero nello stesso punto. Stesso “punto”, perché la superficie è davvero minima: poco più di tremila metri quadrati, un terzo di ettaro. Ribattezzato Clos de Rosiers, attende con pazienza il riconoscimento di premier cru, che raggiungerà verosimilmente a breve, data l’età già matura dell’impianto. Solo un muretto divide il piccolo Clos de Rosiers dal Clos de Lambrays. La tessitura del suolo è molto simile, lo stile del vino meno. Sebbene Lambrays abbia un profilo più slanciato, più delicato nella aromatica rispetto alle annate più tanniche e dense degli anni Duemila, il Clos de Rosiers è comunque in media più rarefatto, più quintessenziale, più ricamato. Ciò che concede in pienezza estrattiva e complessità di sfumature, si riprende in leggerezza senza peso, in trasparenza dei profumi e dei sapori. Attenzione: una leggerezza senza peso e tuttavia non vuota. Come accade misteriosamente ai migliori Borgogna, la leggerezza si accompagna a una grande intensità. Pare di guardare una partitura di Mozart: la pagina musicale appare semplice, senza densità, quasi bianca;“una scatola in apparenza vuota”, come è stata definita. Ma il suo contenuto, al contrario, è di una profondità eccezionale. palette Il Clos de Rosiers è dunque un sottile e discreto del che nasce oltre il piccolo muro del giardino di Place du Monument 1. alter ego grand vin