le vie del cesanese
Massimo Castellani

“Il vitigno più pregiato, ma non certo il più diffuso, quello che potrebbe dirsi il pinot del Lazio, al quale ha molta somiglianza è il cesanese, che qualche volta viene chiamato cimarese o castrese”: così Camillo Mancini definiva il vitigno frusinate nello studio Il Lazio viticolo e vinicolo del 1888. L’accostamento del cesanese alla grande uva borgognona era certo un pregiato apprezzamento, in una descrizione del vino che continuava: “di colore più o meno carico, di sapore pieno e rotondo, tendente più all’abboccato che all’amarognolo, di una piuttosto limitata forza alcolica, di una conservabilità infine alquanto problematica. In sostanza, che ha una buona stoffa di vino, ma confezionato male… Questi vini aspettano ancora la mano del sapiente enotecnico”. Un tempo, infatti, il Cesanese era apprezzato - soprattutto a Roma - come vino dolce e leggerino, più o meno frizzante, in genere abbinato alle crostate di frutta o ai dolci di pasta frolla con confetture. Per fortuna questa usanza si è progressivamente perduta e il Cesanese ha cominciato ad apparire sulle tavole come un gran bel vino rosso secco, fermo e di buona struttura.


Sull’origine etimologica del cesanese, l’ipotesi più accreditata fa derivare il nome da caesae, “luoghi dagli alberi tagliati”, con riferimento alle zone disboscate, assegnate ai militari romani congedati dall’esercito, che si dedicavano all’agricoltura. A proposito dell’origine del vitigno ciociaro, si è sostenuto a lungo che le capostipiti fossero le uve alveole, citate da Plinio il Vecchio nella Naturalis historia e coltivate nell’areale di Ariccia, ma un recente studio condotto dal CRA di Conegliano sul Dna del cesanese di Affile ha stabilito che quest’uva non ha parentele con altre varietà italiane. Già nel Duecento il Cesanese del Piglio aveva una certa notorietà, raccontato come uno dei vini prediletti dall’imperatore Federico II di Svevia o dei papi di Anagni, Innocenzo III e Bonifacio VIII. Gli Statuta Olibani (1364), che regolamentavano l’area di Olevano Romano e Genazzano, elencavano le norme riguardanti le vigne e il vino, per contrastare i danni provocati da ladri, animali al pascolo e dai tavernieri che annacquavano il vino o vendevano vino non locale. Gli Statuti della Terra di Piglio (1479) stabilivano le zone da destinare a vigneto, l’epoca della vendemmia e le regole per il commercio del vino. Nel Settecento per tutelare le vigne si prevedendo “pene severissime a chiunque avesse avuto l’ardire di recare danno alle vigne”.