Che il panorama ampelografico italiano sia ricchissimo di vitigni non è una novità, così come il fatto che nel tempo siano tornate a splendere molte varietà definite semplicisticamente minori. Più complesso è capire come un vitigno dimenticato possa, nel giro di una decina di anni, ridisegnare lo scenario produttivo di una regione: è quanto sta accadendo in Umbria con il trebbiano spoletino. Oggi i vini ottenuti da questa varietà hanno un profilo di spiccata peculiarità e grande vivacità espressiva, insieme a una plasticità testimoniata dalla versatilità delle produzioni, che spaziano dagli spumanti ai vini passiti. Per avere qualche elemento in più di comprensione è necessario allargare lo sguardo, intrecciando la presenza di quest’uva nella vallata tra Spoleto e Foligno a ciò che è successo in passato.
Il nome stesso è piuttosto controverso e difficilmente decifrabile, poiché in molte tracce storiche non si menzionano i vitigni, e il nome del vino è quasi sempre legato alla zona di produzione. Marziale, nel I secolo d.C., menziona lo Spoletinum: “Preferirai le bottiglie polverose del vino di Spoleto ai sorsi del Falerno novello”, e dal paragone con il Falerno sorge addirittura il sospetto che si riferisca a un vino rosso. Un paio di secoli dopo Ateneo di Naucrati, nel primo libro dell’opera I dotti a banchetto, cita con sintetiche annotazioni una trentina di vini d’Italia, fra cui lo Spoletinum dulce haustum, colore aureo, il “vino di Spoleto gradevole da bere e di colore dorato”.
Nel Medioevo e nel Rinascimento non mancano notizie, ma si riferiscono sempre al vino; bisogna attendere la seconda metà dell’Ottocento per incontrare un vitigno citato in varie forme e denominato “spoletino”. Nell’elenco dei vitigni umbri compilato nel 1875 da Raffaello Antinori e Giuseppe Bellucci per la Commissione ampelografica dell’Umbria è incluso il “greco spoletino”, distinto dal grechetto e dai trebbiani.