insostenibile leggerezza Valerio M. Visintin Ipnotizzati dalle mode in voga e dalle tendenze del giorno come inguaribili adolescenti, i templari del food si sono invaghiti di una nuova parola d’ordine e se la sono annessa: sostenibilità. Naturalmente, il fatto che, una volta tanto, il vocabolo prescelto incorpori valori sacrosanti e istanze cogenti ha generato un certo imbarazzo nella truppa. In compenso, non ha avuto alcuna incidenza sulle traiettorie dialettiche di questa brava gente. Chef, ristoratori, giornalisti, influencer e blogger sono interessati soltanto al guscio delle vicende sociali. La polpa è il primo degli scarti. Con ammirevole coerenza, dunque, si sono limitati ad accantonare il vecchio armamentario lessicale, come se fosse un giocattolo rotto. Innovazione, tradizione, cultura e persino le commoventi memorie nonnesche sono finite in sottordine. Perché, all’improvviso, è sbocciata questa nuova e impellente priorità narrativa, come se le tematiche ecologiche ed etiche fossero urgenze dell’ultim’ora, fresche fresche di giornata. D’altra parte, non si può negare che vi siano vistose attenuanti a difesa dell’onore del nostro settore. Per cominciare, dobbiamo considerare la limitatezza del vocabolo e dei suoi derivati. Colpa della moderna prassi comunicativa, la quale ci impone di comprimere concetti vasti e complessi in poche sillabe, invalidandone la profondità. Accade, quindi, che ovunque ci si interroghi sulla sostenibilità nel pianeta della ristorazione. Ma nessuno s’azzarda a delineare una definizione preliminare, a tracciarne i perimetri, a mappare i punti di criticità. Ci si limita a definizioni liriche e nebbiose, come poesie ermetiche. La più bella di tutte è la seguente (vi risparmio il nome dell’autore, per spirito natalizio): “Bisogna capirla come un pensiero ancora più lungo”. Ma anche quando si scende sul piano pratico, la discussione segna il passo. E nella maggior parte dei casi, si sbatte il muso contro vaghe mozioni di intenti: “Dovremo…” “Bisognerà…” “Sarà imperativo…” “Si impone un impegno comune per…” Il domani è un contenitore di benefici propositi, annunciati con la stessa soave ipocrisia che affolla i teatrini dei dibattiti politici. Inutile dire che tutto ciò che segue a una generica e impersonale proiezione futura non ha il minimo rilievo. Sono parole al vento. Sostenibilità è, piuttosto, un precetto che andrebbe applicato con rigore in tutte le sue declinazioni: ecologiche, morali, etiche, sociali, legali. E a chi spetta soppesare il grado di fedeltà a tali princìpi? Non alle guide, non ai critici gastronomici. Intanto, perché non siamo pubblici ufficiali e non abbiamo l’autorità (ma nemmeno la statura morale) per esigere libri paga, fatture, documenti e testimonianze di buone pratiche quotidiane. E soprattutto perché il nostro mestiere si basa sul legittimo esercizio di valutazioni personali. Mentre necessitano parametri precisi e insindacabili per misurare seriamente la sostenibilità di un pubblico esercizio. Ma questo genere di speculazioni non è pane per i denti dei giornalisti in generale. Noi diamo notizie, raccontiamo fatti e vicende, promuoviamo inchieste, offriamo opinioni. Non spetta ai nostri uffici emettere certificazioni di buona condotta. Anche se c’è chi se ne arroga il diritto, con faciloneria, per attrarre nuovi sponsor o per far parlare di sé. Quel che mi sento di poter fare, se permettete, è citare alcune pratiche che non sono sinonimo di sostenibilità nel campo della ristorazione. Anche se mi duole dover smontare molte delle interpretazioni più diffuse. Proprio in questi giorni prenatalizi, poi, quando dovremmo essere tutti più indulgenti e caritatevoli. Sostenibilità non è coltivare un orticello nel prato dietro l’ingresso, per guadagnare la stella verde della Michelin. Non è neanche dare ai poveri gli scarti delle proprie cucine. Non è mettere in lista le acciughe del mar Cantabrico o altri prodotti d’Oltremondo per compiacere importatori influenti. Sostenibilità nella ristorazione non è accettare compromessi in cambio di un premietto sul quale piagnucolare frasi di gratitudine. Non è riempire la cucina e la sala di stagisti, che lavorano gratis et amore Dei. E non è nemmeno violare i diritti dei dipendenti, imponendo straordinari non pagati e, con sfacciata simultaneità, accusando i giovani di scarsa attitudine al sacrificio. Non è regalare pasti maestosi ai critici gastronomici. E non è chiudere gli occhi davanti a finanziamenti di origine oscura. Non è avvolgere i pacchetti della delivery in un mare di plastica. Non è gridare: abbasso gli sprechi! Non è riempire d’alcol le notti brave della movida. E non è neanche apparecchiare un piatto vegetariano. Sostenibilità, mi vien da dire citando Gaber, è partecipazione.