Ipnotizzati dalle mode in voga e dalle tendenze del giorno come inguaribili adolescenti, i templari del food si sono invaghiti di una nuova parola
d’ordine e se la sono annessa: sostenibilità. Naturalmente, il fatto che, una volta tanto, il vocabolo prescelto incorpori valori sacrosanti e istanze
cogenti ha generato un certo imbarazzo nella truppa. In compenso, non ha avuto alcuna incidenza sulle traiettorie dialettiche di questa brava gente.
Chef, ristoratori, giornalisti, influencer e blogger sono interessati soltanto al guscio delle vicende sociali. La polpa è il primo degli scarti.
Con ammirevole coerenza, dunque, si sono limitati ad accantonare il vecchio armamentario lessicale, come se fosse un giocattolo rotto. Innovazione,
tradizione, cultura e persino le commoventi memorie nonnesche sono finite in sottordine. Perché, all’improvviso, è sbocciata questa nuova e impellente
priorità narrativa, come se le tematiche ecologiche ed etiche fossero urgenze dell’ultim’ora, fresche fresche di giornata. D’altra parte, non si può
negare che vi siano vistose attenuanti a difesa dell’onore del nostro settore. Per cominciare, dobbiamo considerare la limitatezza del vocabolo e dei
suoi derivati. Colpa della moderna prassi comunicativa, la quale ci impone di comprimere concetti vasti e complessi in poche sillabe, invalidandone la
profondità.
Accade, quindi, che ovunque ci si interroghi sulla sostenibilità nel pianeta della ristorazione. Ma nessuno s’azzarda a delineare una definizione
preliminare, a tracciarne i perimetri, a mappare i punti di criticità. Ci si limita a definizioni liriche e nebbiose, come poesie ermetiche. La più
bella di tutte è la seguente (vi risparmio il nome dell’autore, per spirito natalizio): “Bisogna capirla come un pensiero ancora più lungo”.
Ma anche quando si scende sul piano pratico, la discussione segna il passo. E nella maggior parte dei casi, si sbatte il muso contro vaghe mozioni di
intenti:
“Dovremo…”
“Bisognerà…”
“Sarà imperativo…”
“Si impone un impegno comune per…”