Nel 2019 aveva destato molto interesse un sondaggio sulla professionalità lavorativa nell’hospitality e nella ristorazione. Sfortunatamente quei
dati sono rimasti nel cassetto per oltre due anni, ed è giunto il momento di analizzarli, passandoli sotto la lente d’ingrandimento di una
quotidianità pervasa da una crisi professionale che investe molti settori dell’accoglienza turistica. Dalla ricerca era emerso che uno dei requisiti
essenziali per chi intende affrontare un percorso lavorativo nella ristorazione è la duttilità. I sommelier erano dunque invitati a non fermarsi al
primo traguardo di questa professione, cioè il conseguimento dell’abilitazione, e al primo ristorante stellato, bensì a viaggiare senza sosta. Ciò
significa assorbire esperienze in nazioni diverse e distanti, continuare a studiare, e viaggiare anche verso aperture mentali e culturali che
arricchiscano la professionalità di preziosi elementi multitasking da spendere in quelle criticità che possono fare lo sgambetto a chiunque. La
ricerca sottolineava che il professionista in possesso di multi-professionalità avrebbe trovato straordinari sbocchi professionali.
Sembra di ripercorre la storia dell’odierno sommelier, nato come figura alternativa all’addetto ai vini, specializzatosi nella cura di quei dettagli
della professione che l’hanno reso attore in sala e attivatore di empatia. Oggi il sommelier è quasi un multitasking dell’abbinamento cibo-vino, si
è impossessato della conoscenza di nuovi vini e di innovativi gusti dei cibi, contaminandosi da Oriente a Occidente, occhieggiando ai profumi del
Sud del mondo e alle freddure nordiche. È in grado di abitare la sala di un fine-dining restaurant, di raccontare un vino e un territorio in
una conferenza, di recensirlo per una guida o per una rivista, di veicolarlo sui social, di descriverlo per farlo apprezzare. Il sommelier di oggi è
pronto per ogni variabilità ristorativa, e non c’è pietanza che non sia in grado di abbinare a un vino, una birra, un tè o una tisana.
Nell’ambito della professionalità culinaria, notiamo che si sta affievolendo la duttilità gastronomica, e da qualche anno alcuni trend
nell’evoluzione di un menu sorprendono non poco la clientela che gradisce la classicità della scelta. Si sta progressivamente imponendo la proposta
del menu degustazione, velatamente imposta al commensale perché il suo costo equivale quasi a quello di una portata. L’aspetto sorprendente di
questa tendenza è che i ristoranti più interessati sono quelli stellati, e alcuni addirittura non intendono nemmeno sostituire un piatto, qualora un
ingrediente non fosse gradito al cliente. La moda, chiamiamola così, si è affermata all’estero: in Francia numerosi locali ne fanno quasi un vanto,
e questo impedisce di lasciarsi sorprendere dal “piatto del giorno” o dalla più raffinata proposta “oggi dal mercato”. In alcuni ristoranti questa
novità quasi costringe il commensale ad affidarsi a una remunerativa (per il gestore) proposta d’abbinamento con il vino, peraltro con impossibilità
di variazione, mentre nella carta dei vini si scoprono ricarichi salati e, sciaguratamente, una desolante convenzionalità di offerta. In una
situazione del genere siamo anche un po’ perplessi sul ruolo del sommelier, specialmente se viene limitato nella sua indagine selettiva, e
sull’operatività, perché le direttive aziendali di gros-profit suggeriscono l’utilizzo di canali di acquisto pensati al tavolo dell’ufficio
marketing o da un distratto FB, per essere tradotti in grafici modello Nasdaq, pensando più a un arido indice di crescita.
Auspichiamo che questo indirizzo non sia la conseguenza, ma uno strascico della crisi che stiamo ancora attraversando, perché rischierebbe, nel
tempo, di far perdere una parte di quell’appeal culinario che si era affermato nelle persone dotate di curiosità, desiderose di appagare la propria
indole di sperimentatori. Se questa tendenza dovesse ampliarsi, si rischia di imboccare una via di non ritorno, che potrebbe influenzare
negativamente anche i percorsi di crescita della sperimentazione condivisa con il commensale fidelizzato. C’è chi già si lamenta perché l’offerta
nei menu si sta assottigliando, spesso limitata a tre opzioni per portata, e la variabilità temporale è sempre meno frequente. Molte carte dei vini
si stanno sfoltendo, a discapito dell’acquisita duttilità dei sommelier, che si trovano a dover applicare molti asterischi, davvero indesiderati per
il cliente. Gli echi di quel boom gastronomico che fece nascere in Italia le guide alternative alla Michelin e, perché no, anche quelle dei vini,
sono un lontano ricordo. In quegli anni le recensioni erano intrise di pathos, c’era un’emozionante eccitazione nel racconto; oggi si sono
inaridite, si sono “tripadvisorizzate” e incattivite oltre ogni ragionevole limite. È necessario recuperare il legame culturale, quello pensato in
cucina e fra i tavoli del ristorante. Serve una nuova filosofia di sala, che sia appagante in tutto, perché quelle figure lavorative sono
strategiche; devono essere formate non solo per adeguarsi alle strategie, ma per costruirle, ricordando che ogni giorno, a contatto con il pubblico,
servono duttilità e variabilità. Noi ci stiamo già pensando.