energia pantesca Fabio Rizzari I migliori vini dolci del mondo non sono dolci. O almeno, non sono dolci. Si tratta della categoria di vini più variegata, o - per dirla in modo più altisonante - della tipologia che spinge al massimo grado di tensione strutturale i suoi estremi. Da un lato, infatti, comprende soluzioni idroalcoliche banalissime, facili da eseguire sul piano tecnico: si prende dell’uva qualsiasi - in taluni casi del passato, nemmeno dell’uva - e la si fa fermentare parzialmente, lasciando nel vino finito una bella quota di zuccheri residui. Si ottengono così vinelli stucchevoli, prevedibili, appiccicosi, che piacciono ai palati più grossolani (il gusto dolce è il più infantile e quindi il più facile da compiacere). Dall’altro lato, accoglie vini di straordinaria complessità, estremamente difficili e costosi da produrre. Bevendo un vino dolce ci si può dunque trovare all’asilo o nell’aula magna dell’Università più esclusiva. Il nostro Paese è ricchissimo di variazioni stilistiche sul tema: mosti d’uva parzialmente fermentati (Moscato d’Asti), vini dolci propriamente detti, bianchi e rossi frizzanti, spumanti dolci, vini passiti, vini ossidativi che contengono zuccheri, eccetera. I migliori sono accomunati da un elemento decisivo: alla dolcezza zuccherina accompagnano un contrafforte gustativo formato da elementi non dolci, che dona freschezza e slancio al sorso. Un contrafforte che può essere una corrente salina, e/o una dorsale di acidità, oppure delle nuance aromatiche più “scure”, dei sottili riflessi gustativi amari. L’importante è che l’architettura del vino trovi il suo sesto equilibrando spinte dolci e controspinte non dolci. Non a caso Luigi Veronelli usava l’espressione “dolce non dolce” per definire i vini “del suo privilegio” in quest’ampia categoria. soltanto Se questo è vero, e per molti bevitori lo è, allora il Passito di Pantelleria prodotto da Salvatore Ferrandes è un vino dolce esemplare. I suoi lati di luce - la dolcezza estenuante dell’acino d’uva disidratato, la morbidezza tattile - convivono armoniosamente con i suoi lati d’ombra: le note vegetali di capperi e macchia mediterranea, il sapore deciso del sale marino, le sfumature amarognole del miele di castagno. “È vero, un buon vino di queste parti deve avere anche gusti non dolci”, conferma Salvatore. “Quando ho iniziato a vinificare passiti, che vendevo sfusi, il passito era considerato un vino di serie b. Un vino da donne, lo chiamavano. E invece è il vino più difficile da fare. Di gran lunga. Non hai reti di protezione, devi lavorare in modo precisissimo.” Ferrandes ha una piccola tenuta di circa tre ettari in contrada Mueggen, nella parte orientale dell’isola. Isola che, come si sa, è uno dei territori più meridionali d’Italia. Un braccio di mare la divide a ovest dalla penisola tunisina di Capo Bon; sul versante est, più in lontananza, guarda la costa del Ragusano. Il suo clima è talvolta bizzarro, controintuitivo. Certo, il calore estivo, soprattutto nelle aree più interne, può essere opprimente. Però chi si aspetterebbe di trovare a luglio una nebbia - sì, proprio una nebbia - così fitta da costringere un aereo a rinunciare all’atterraggio? E chi crederebbe che occorre quasi zavorrarsi con delle pietre per non volare in mare a causa dei venti fortissimi che la battono implacabilmente tutto l’anno? Le vigne di zibibbo sono infatti coltivate ad alberello, in piccole conche scavate nella terra, per offrire un riparo dal pettine impetuoso del maestrale. Molta dell’opera umana qui è protezione dai venti: i celebri giardini panteschi, strutture circolari in roccia vulcanica murata a secco, difendono le piante di agrumi dalle raffiche implacabili; i dammusi, anch’essi in pietra lavica, ospitano gli esseri viventi della specie . “E per fortuna abbiamo la presenza costante del vento, altrimenti in estate ci scioglieremmo al sole, con tutte queste pietre scure”, commenta Ferrandes. Un sostenitore della biodinamica direbbe quindi che Pantelleria è attraversata da correnti di energia formidabili: la “forza radiante” dell’antico materiale eruttivo, il moto incessante del mare, l’intenso flusso della ventilazione,il potente soleggiamento sono un ambiente ideale per far nascere vini di grande intensità. In questo paesaggio unico Salvatore è nato e cresciuto. La sua famiglia è pantesca da secoli. Il dammuso in cui vive con la moglie Dominica - preziosa alleata anche nella produzione di vino - risale al XVII secolo. Fare vino era quindi, al netto di ogni enfasi, un destino scritto. “I primi tempi, più o meno alla fine degli anni Settanta, facevo vino per consumo familiare e ne vendevo un po’ non imbottigliato. Quando Giacomo Rallo ha deciso di puntare sul Passito di Pantelleria, qualche anno più tardi, mi ha chiesto di collaborare con lui. homo sapiens I primi Ben Ryé li ho vinificati io, e mi fa piacere ricordarlo; devo dire che a Donnafugata hanno sempre lavorato bene, nel rispetto delle tradizioni dell’isola.” “Sarò ovvio dirlo, ma il buon vino nasce dal lavoro attento in vigna”, continua Salvatore. “Io ho poca terra vitata, ma ogni singola parcella, ogni piccolo terrazzamento richiede una cura specifica. Qui il contesto cambia addirittura da metro a metro.” Arrivati a maturazione, i grappoli di zibibbo, dolci e velati di salsedine, sono già una piccola bomba a orologeria di sapori, pronti a esplodere nell’alchimia della vinificazione. “Dopo la vendemmia li lascio appassire per un periodo non prolungatissimo, in media un paio di settimane. Uso dei graticci all’aperto, ma ho anche due tunnel coperti, perché qui sull’isola le piogge possono essere torrenziali.” La cura delle vigne è massima, ma la vera arte si rivela nella tecnica di cantina. La vinificazione è per così dire scalare, dato che le uve passite sono la base di una tavolozza che Ferrandes usa come un pittore: “Per prima cosa faccio fermentare grappoli più acidi e che hanno poco residuo zuccherino. Poi, molto lentamente, in un arco di tempo che prende anche due o tre mesi, aggiungo uva passa più dolce, per finire con gli acini appassiti al sole estivo più forte, quindi più ricchi di zuccheri”. Tutta la sapienza di Salvatore sta proprio nel misurare e bilanciare, con la sensibilità micrometrica di un antico speziale, gli strati di una lentissima fermentazione. “Il vino finito lo tengo diversi anni in cantina prima di metterlo in commercio. Voglio che vada sul mercato quando è affinato al punto giusto.” Sono nati così il prodigioso 2009, un vino di ricchezza aromatica inebriante, o lo stilizzato 2007, e molti altri capolavori. Sarà autosuggestione, ma nella palette aromatica del Passito Ferrandes, così ricca di punteggiature di macchia mediterranea, mi sembra di cogliere quasi sempre anche una sfumatura di capperi: e la famiglia Ferrandes ne produce di buonissimi. A una cena un collega, tenuemente alterato ma non ottenebrato dall’alcol, esclamò: “I capperi di Ferrandes sono eccezionali e quasi li preferisco al Passito”. Solo una battuta, certo, ma indicativa dell’unicità di ciò che viene prodotto qui. La matrice vulcanica dei terreni di Pantelleria fa crescere tutto con forza: che si pianti la vite, degli aranci, degli arbusti di capperi, perfino un vecchio cellulare o una patente scaduta, il risultato saranno uve, arance, capperi, cellulari e patenti di grande qualità. A pochissima distanza dalle parcelle di Ferrandes, circa un chilometro in linea d’aria, si trovano alcune vigne di una realtà produttiva molto meno conosciuta: l’azienda Caterina Ferreri. Le case delle due famiglie sono ancora più vicine, una quindicina di metri. L’attività di famiglia è vecchia e nuova insieme. Vecchia, perché Filippo di Nunzio – il marito di Caterina – fa passito da decenni. Nuova, perché imbottiglia in proprio relativamente da poco, mentre prima i vini erano conferiti ad altri produttori. Oggi quasi ottantenne, Filippo è affiancato dal figlio Gianfranco, che cura soprattutto gli aspetti commerciali dell’attività. Le vigne, distribuite su circa tre ettari (in sette località diverse dell’isola), sono tradizionali, così come la vinificazione: “Facciamo appassire le uve su stenditoi per un paio di settimane, venti giorni al massimo. La fermentazione parte con uva fresca, cui aggiungiamo i grappoli appassiti, secondo l’uso locale”, racconta Filippo. Si tratta quindi, pare di interpretare, di una sorta di “infusione” delicata, più che di una lavorazione stratificata come nel caso di Ferrandes. Il passito che ne risulta – in etichetta Passito di Pantelleria I Praie – è comunque molto valido. Il 2015 ha colore già sull’ambra, profumi classici (non starò a mettere in fila il solito trenino di analogie con fichi secchi/datteri/ albicocca eccetera, tanto ci siamo capiti) e un assetto gustativo equilibrato, in cui la densità del liquido è appena accennata, non oleosa e vischiosa come nei vini dolci più ruffiani. Apprezzabile la decisa nota di arancia amara, a dare una pennellata di sfumature più severe al sapore, ciò che dona complessità all’insieme. Nota di merito finale, annotata a latere, per il Pantelleria Bianco dell’azienda, un vino secco non troppo debitore dei toni aromatici dello zibibbo e anzi (nell’annata 2020) reattivo, sapido, succoso, di immediata bevibilità.