Surclassata dalle mode e dal richiamo evocativo di altri spirits, la notorietà del brandy italiano negli ultimi decenni si è progressivamente offuscata. Oggi il rilancio identitario passa dalle orgogliose eccellenze dei distillatori artigianali.
brandy awareness
Antonio Furesi
Dai celebri brandy del passato alla produzione artigianale odierna, qual è l’evoluzione del brandy italiano? Quando parliamo di distillati in Italia, è facile che il pensiero vada alla grappa; qualcuno mentalmente indugia sul rinnovato e modaiolo gin italiano, ma in questo articolo l’attenzione è posta sul brandy, la storica acquavite di vino dalle solide radici nel nostro Paese, ma con sorti piuttosto altalenanti.
Procediamo con ordine. In principio era il brandewijn (vino bruciato), nome olandese dell’acquavite invecchiata ottenuta dal vino, brandwine nella versione inglese, per arrivare all’odierno “brandy”. Testimonianze letterarie di questa etimologia si trovano nella pièce teatrale dello scrittore secentesco John Fletcher: “Come, come let’s drink then more Brand Wine”, e nella raccolta Roxburghe Ballads: “It is more fine than brandewine”.
La storia del brandy è legata all’antichissimo sviluppo della distillazione, connessa a sua volta alla cultura mediorientale e all’alchimia; non a caso la parola “alambicco” è correlata all’arabo “al- ambiq”. Gli scritti attribuiti allo studioso e alchimista Jābir ibn Ḥayyān e al filosofo e scienziato Al-Kindī (vissuti nel IX secolo) attestano quanto il mondo mediorientale abbia contribuito alla crescita di questa filosofia produttiva che, fin dall’Alto Medioevo, si è diffusa in tutto l’Occidente per ottenere l’aqua ardens, considerata una sorta di salvavita contro tutte le malattie.