In origine il vino era macerato a lungo, sia per l’impossibilità di separare con precisione la parte liquida da quella solida, sia per una consapevole
scelta enologica. I romani, per conservare il nettare di Bacco, si servivano di bucce, raspi, resine e spezie, un processo complesso volto a creare una
bevanda fermentata che doveva sfidare il tempo, il mare, le escursioni termiche e le distanze. E così è stato fino all’avvento della moderna enologia,
per arrivare poi a un cambiamento radicale nella seconda metà del Novecento. Gli anni ’60 e ’70 furono segnati dalla rivoluzione agricola, dal boom
economico, da un profondo mutamento nella vita dei consumatori e dei loro gusti. In cantina le parti solide erano trattare alla stregua di uno scarto,
reputate troppo rozze per poter fermentare con il mosto – in particolar modo nella vinificazione in bianco. Le operazioni manuali vennero presto
sostituite da pigiadiraspatrici e presse meccaniche in grado di isolare il mosto dalla maggior parte dei temibili contaminanti fisici che per millenni
avevano caratterizzato il gusto del vino.
Giunse l’epoca dell’enologia come scienza, con il vino “bianco carta” abbagliante per candore e luce riflessa, ottenuto con fermentazioni rapide per
avere un prodotto fresco, poco alcolico e di pronta beva, non adatto all’invecchiamento. Anche nella vinificazione in rosso si andò in sottrazione,
evitando sempre più il contatto con i raspi e conservando solo le bucce, macerate per il tempo della fermentazione alcolica, per poi passare velocemente
a svinature, travasi e chiarifiche. Questa rivoluzione in cantina portò indubbi miglioramenti rispetto al passato. Il vino conobbe, forse per la prima
volta nella storia e in modo consapevole, il concetto di equilibro, e poi quello di armonia. E se i nostri avi necessitavano di aromi e zuccheri per
nascondere le asperità, la vinificazione ora concepiva vini la cui finezza diventò leggendaria e punto di riferimento anche nelle odierne degustazioni.
A poco a poco l’enologia diventò sinonimo di chimica. Organica, ma anche inorganica. Dal vino si pretendeva sempre di più, e come una divinità ha il
controllo sulla sorte delle proprie creature, così l’enologo è rappresentato come un alchimista che tutto può trasformare e ottenere. In trent’anni
furono creati e usati centinaia di additivi diversi per migliorare la fermentazione, l’estrazione, il profilo organolettico e la maturazione,
promettendo profumi, alcol e piacevolezza ad ogni costo. Dalla demonizzata solforosa agli enzimi che degradano le cuticole delle vinacce, all’aggiunta
di azoto e vitamine per sostenere l’azione di lieviti selezionati dal metabolismo di ferro, impavidi di fronte a sbilanciati tenori zuccherini o a mosti
poco incoraggianti. Riflettendo, viene spontaneo chiedersi: era veramente necessario intervenire in modo così sistematico e drastico? E soprattutto
perché? Che cosa non andava nei mosti?