la dimensione della macerazione Francesca Zaccarelli In origine il vino era macerato a lungo, sia per l’impossibilità di separare con precisione la parte liquida da quella solida, sia per una consapevole scelta enologica. I romani, per conservare il nettare di Bacco, si servivano di bucce, raspi, resine e spezie, un processo complesso volto a creare una bevanda fermentata che doveva sfidare il tempo, il mare, le escursioni termiche e le distanze. E così è stato fino all’avvento della moderna enologia, per arrivare poi a un cambiamento radicale nella seconda metà del Novecento. Gli anni ’60 e ’70 furono segnati dalla rivoluzione agricola, dal boom economico, da un profondo mutamento nella vita dei consumatori e dei loro gusti. In cantina le parti solide erano trattare alla stregua di uno scarto, reputate troppo rozze per poter fermentare con il mosto – in particolar modo nella vinificazione in bianco. Le operazioni manuali vennero presto sostituite da pigiadiraspatrici e presse meccaniche in grado di isolare il mosto dalla maggior parte dei temibili contaminanti fisici che per millenni avevano caratterizzato il gusto del vino. Giunse l’epoca dell’enologia come scienza, con il vino “bianco carta” abbagliante per candore e luce riflessa, ottenuto con fermentazioni rapide per avere un prodotto fresco, poco alcolico e di pronta beva, non adatto all’invecchiamento. Anche nella vinificazione in rosso si andò in sottrazione, evitando sempre più il contatto con i raspi e conservando solo le bucce, macerate per il tempo della fermentazione alcolica, per poi passare velocemente a svinature, travasi e chiarifiche. Questa rivoluzione in cantina portò indubbi miglioramenti rispetto al passato. Il vino conobbe, forse per la prima volta nella storia e in modo consapevole, il concetto di equilibro, e poi quello di armonia. E se i nostri avi necessitavano di aromi e zuccheri per nascondere le asperità, la vinificazione ora concepiva vini la cui finezza diventò leggendaria e punto di riferimento anche nelle odierne degustazioni. A poco a poco l’enologia diventò sinonimo di chimica. Organica, ma anche inorganica. Dal vino si pretendeva sempre di più, e come una divinità ha il controllo sulla sorte delle proprie creature, così l’enologo è rappresentato come un alchimista che tutto può trasformare e ottenere. In trent’anni furono creati e usati centinaia di additivi diversi per migliorare la fermentazione, l’estrazione, il profilo organolettico e la maturazione, promettendo profumi, alcol e piacevolezza ad ogni costo. Dalla demonizzata solforosa agli enzimi che degradano le cuticole delle vinacce, all’aggiunta di azoto e vitamine per sostenere l’azione di lieviti selezionati dal metabolismo di ferro, impavidi di fronte a sbilanciati tenori zuccherini o a mosti poco incoraggianti. Riflettendo, viene spontaneo chiedersi: era veramente necessario intervenire in modo così sistematico e drastico? E soprattutto perché? Che cosa non andava nei mosti? Una risposta arrivò già negli anni ’90 da una controcorrente che intendeva rievocare un vino genuino, spontaneo nella fermentazione e nella sua espressione. Emerse una considerazione sensata, al di là di ogni visione enologica: nel tentativo di avere mosti puliti e addomesticabili, si sacrificava una porzione insostituibile di sostanze presenti unicamente in quelle parti solide tanto criticate. Era soprattutto la vinificazione in bianco a risentirne, dove il mosto oltre che separato veniva eccessivamente spogliato. Il bisogno di tornare alle origini e imparare da capo a fare il vino portò a riscoprire sapori e colori dimenticati. In breve tempo, produttori avanguardisti si lasciarono ispirare da metodi antichi ma praticati, come l’adozione di macerazioni e l’uso delle anfore. Ancor più della vinificazione in rosso, fu quella in bianco a essere stravolta. La luce cristallina del paglierino con riflessi argentati si scontrò con il giallo ambrato e velato dei vini georgiani vinificati nei qvevri, il cui stile conquistò rapidamente Vecchio e Nuovo Mondo. Tornò l’epoca delle sperimentazioni e delle estrazioni integrali in fermentazione, usando anche i raspi. Prese piede un nuovo stile di produrre, che andava oltre l’idea di una vinificazione naturale, scevra da ogni intervento chimico. Conseguentemente si affermò un gusto diverso, e ciò che un tempo era considerato difetto diventava peculiarità. Era la corrente dei vini macerati e ambrati, con il loro fondo di fecce ancora in infusione e gli aromi ossidati, che trasfiguravano un bouquet prima tutto frutto chiaro e fiore in profili capaci di sfiorare spezie scure e un fruttato maturo sfacciato, non esente da qualche apprezzata sfumatura di volatile. In bocca, poi, leggiadria e freschezza erano soppiantate dall’astringenza, da palati sabbiosi e sapidi, da ritorni intensi e da persistenze saporite che ricordavano l’umami. Una nuova seppur antica categoria di vino, insomma, così apprezzata da esser riconosciuta dalla stessa OIV, che nel 2021 apre le porte dei vini speciali agli orange wine maturati sulle vinacce in anfora. È un racconto che ben conosciamo, ma che non finisce qui. Perché tra l’enologia interventista e il suo opposto si contano mille sfumature intermedie. Se pensassimo all’uso delle macerazioni solo in questi termini e se credessimo che i vini macerati siano solo bianchi ambrati o rossi troppo tannici e corposi, peccheremmo di superficialità, ignorando una parte di ricerca enologica che ha cercato di trarre il meglio dalla vecchia e dalla nuova scuola. Parliamo di una terza dimensione del vino, come la definisce l’enologo Mattia Filippi. Una via che punta alla coerenza e all’armonia, ma percorrendo strade più complesse per ottenere un prodotto espressivo, soprattutto per quanto riguarda i vitigni autoctoni. Anche perché, come spiega l’enologo Pierpaolo Pirone, la macerazione porta vantaggi unici in cantina. Primo fra tutti la possibilità di usare meno additivi – tra cui la solforosa – e quindi il lusso di adottare fermentazioni spontanee con lieviti indigeni. Una tecnica che va compresa per essere scelta con criterio, perché non ha senso la macerazione a tutti i costi e fine a sé stessa, come afferma il produttore Paolo Barillari. Chi obietta che macerare significa ossidare eccessivamente i mosti e ottenere aromi poco fini, deve ricredersi. La tecnologia e la consapevolezza odierne permettono infatti di ovviare a problemi di ossidazione e sovraestrazione a favore di complessità, spessore ed eleganza. Di fatto, dovremmo pensare al contatto mosto-bucce come a un’infusione controllata volta a estrarre sostante preziose, che nella vinificazione in bianco non sono trasferite e in quella in rosso vengono coperte o disperse. Certo, macerazioni prefermentative, stabulazioni e criomacerazioni aiutano a conferire al mosto più aromi fissando precursori e metaboliti, ma non accompagnano la fermentazione, fase in cui la comparsa di etanolo amplifica l’effetto estrattivo. Quello di cui si parla non è legato solo ai profumi, quanto alla possibilità di avere nel vino più antiossidanti e componenti che contribuiscono alla sua longevità e piacevolezza. Pensiamo all’infusione delle foglie di tè: consideriamo un delicato sencha giapponese come paragone per la vinificazione in bianco e un tè nero intenso per quella in rosso. Siamo abituati a rapide infusioni a basse temperature per il primo, mentre nel secondo caso la macerazione può protrarsi per lungo tempo anche in ebollizione. Questo perché il tè verde è apprezzato per la leggiadria aromatica e va consumato senza zucchero, limone o latte. Al contrario, il tè nero necessita di qualcosa che smorzi la sua anima amara e astringente. Pensiamo ora a una lunga infusione a freddo in ambo i casi, in recipienti chiusi e lontano dalla luce. Il risultato nel primo caso sarà un tè più ricco di aroma e con una persistenza maggiore, senza sbavature. Contestualmente, si avvertiranno nel tè nero eleganza e profumi mai percepiti prima perché guastati da calore ed estrazioni violente. Lo stesso concetto va applicato in cantina. La macerazione porta a ossidare i mosti bianchi e a cedere tannini amari capaci di coprire le caratteristiche, banalizzandoli fino a omologarli, ma solo se condotta in modo grossolano. Basse temperature, protezione totale dall’ossigeno, azzeramento di operazioni meccaniche violente e scelta di acini maturi, sani e con vinaccioli croccanti ricchi di tannini equilibrati conducono invece a vini dai colori brillanti, dagli aromi fragranti e dai palati equilibrati. Si parte quindi da una raccolta di uve selezionate, mantenute poi in spazi freddi e protette da ossidazioni prima di essere pigiate con la giusta grazia, o in alcuni casi solo diraspate. Il mosto ottenuto è trasferito con cura nei fermentini con le sue vinacce quasi intatte o appunto con acini interi, e inizia a fermentare spesso spontaneamente grazie alla sua ricchezza in sostanze e alla presenza di lieviti indigeni sulle bucce. Il processo fermentativo può essere poi supportato con un preparato a partire dalle stesse uve. L’assenza di shock fisici è importante tanto quanto l’attenzione enologica, soprattutto se l’obiettivo è una lunga macerazione: più è protratto il contatto con le bucce, più delicatamente deve essere rotto il cappello di vinacce, e solo se necessario, sfruttando per l’estrazione l’alcol sempre crescente e dinamiche più dolci date dai naturali moti browniani. Tutto questo evita che acidi idrossinnamici e catechine si imbruniscano o che enzimi ossidativi e sostanze grossolane guastino il vino durante la fermentazione. Al contrario, gli stessi polifenoli resteranno intatti e più numerosi, fungendo da antiossidanti naturali capaci di allungare la vita a quel prodotto. La macerazione in fermentazione è anche un toccasana per i lieviti, che avranno a disposizione più azoto e più substrato solido utile alla propria moltiplicazione e quindi al loro metabolismo. Una buona fermentazione, oltre che portare a livelli di etanolo ottimali, riuscirà anche a liberare meglio i precursori contenuti nelle bucce e a sintetizzare aromi secondari di qualità. pied de cuve Aspetto fondamentale di questo approccio è la sua applicazione per esaltare le cultivar autoctone e per aiutare l’espressione di terroir peculiari. Certamente, la tecnica va adeguata al contesto, perché sono sempre vigneto e pedo-clima a comandare. Si possono trovare grappoli di inzolia esposti a nord-est, destinati a macerare per mesi, di fianco a garganega con estrazioni più oculate e a maturano che in base alle annate cambiano tempi di contatto con le vinacce. La macerazione aiuta a esaltare il territorio anche con vitigni internazionali, come nel caso di Sauvignon che riposano in anfora con le loro vinacce e restituiscono tutta l’unicità della zona da cui provengono, senza tradire le loro sfumature aromatiche quasi universali. Infine, occorre considerare il valore aggiunto dei blend con vini macerati. Una porzione di vino che possiede maggiore corpo e aromi più autentici può aiutare ad arrivare a risultati più audaci e longevi, non ultimo nelle basi spumante. Nella vinificazione in rosso valgono le stesse regole. Assistiamo a macerazioni estrattive che si protraggono come mai prima, regalando vini rossi pieni senza essere pesanti, dai colori vivaci e dagli aromi più espressivi e persistenti. Anche in questo caso l’attenzione al cappello di vinacce è determinante. Per l’estrazione di sostanze “nobili” si stanno sempre più abbandonando sistemi meccanici ed enzimi a favore di metodi focalizzati sull’interazione liquido-solido, aiutati dai micromovimenti causati dall’anidride carbonica e incentivati nelle cantine più all’avanguardia da sistemi a ultrasuoni o ancor meglio da onde disgreganti. Quest’ultima tecnologia consente l’estrazione selettiva delle migliori sostanze con un sistema a impulsi d’aria o gas inerte iniettati nel mosto a una determinata frequenza e lunghezza d’onda. Il movimento disgregante che si crea è responsabile di rottura, inondazione e immersione del cappello con numerosi vantaggi estrattivi grazie a un migliore scambio solido-liquido e un’omogeneità termica. I delicati movimenti d’aria all’interno della massa facilitano anche l’attività dei lieviti, soprattutto nella produzione di metaboliti di interesse aromatico. Se pensiamo a quanto le uve oggi siano sempre più a rischio di squilibri a causa del cambiamento climatico, delle acidità scarse e della presenza di polifenoli più aggressivi, comprendiamo il valore aggiunto di queste attenzioni. In conclusione, la macerazione può rivelarsi un approccio modulabile volto a conferire più equilibrio, più longevità e più integrità. Non è un semplice passaggio nella vinificazione, una tecnica per aggiustare o un esercizio di stile, ma va intesa come un’idea diversa di concepire il vino, tesa a valorizzarlo. La qualità delle uve di partenza viene rispettata e coerentemente trasmessa a un prodotto ottenuto con gli interventi strettamente necessari. Un vino in cui troveremo una profondità maggiore e che vedrà ogni sua parte amplificata senza ridondanza, specchio reale di una cultivar, di un territorio e di un’enologia più consapevole. Conegliano Valdobb. Prosecco Sup. Docg A Sui Lieviti Brut Nature 2019 L’Antica Quercia 11,5% vol. Oltre al fondo, questo Prosecco è speciale perché almeno un 15% del vino base è macerato sulle bucce di glera. Giallo paglierino leggermente velato, dotato di fine effervescenza. Stuzzicanti ricordi di sale, uva sultanina, arancia essiccata, mela cotogna, pinoli tostati, salvia e semi di coriandolo; seguono cenni di melone, caffè macinato e pepe rosa. Il sorso è appagante, fresco, sapido e di buona persistenza fruttata e speziata. Veneto Igt Garganega 2020 Cacciatore d’Uve 11,5% vol. Il mosto resta in macerazione per metà della fermentazione con lieviti indigeni, poi è trasferito in legno per terminare il processo ed effettuare la malolattica. Giallo dorato lievemente velato, gioca tra mela, mandarino, arancia, alchechengi, pesca, susina, ananas e miele, cera d’api, pane e caramella mou; fiori di ginestra e acacia si legano alla creta e a sfumature di maggiorana ed erba medica. Palato fresco, tattile, dagli aromi di frutta gialla che convergono verso un finale asciugante. Frusinate Igt Fregellae Biodinamico 2019 Palazzo Tronconi 13% vol. Blend di pampanaro, maturano e capolongo, resta a contatto con acini interi selezionati per circa un mese durante la fermentazione alcolica con lieviti indigeni. Giallo brillante lievemente velato, regala una succosa frutta gialla, limone anche candito, fiori di ginestra, miele di tarassaco; completano il dragoncello, le spezie dolci, il pepe bianco, lo zenzero fresco e l’argilla. Al palato sorprende per la bella acidità, perfettamente raccolta da una bocca di struttura e dal finale sapido, teso e concentrato su mela e limone. Doyle Sauvignon Biodinamico 2020 Palazzo Tronconi 12,5% vol. Sauvignon del Frusinate maturato in anfore di terracotta a contatto con le bucce per 6 mesi. Giallo intenso velato; al naso è ricco di frutta tropicale anche candita, con maracuja, papaia e mango in primo piano; sfumature di miele di castagno, pompelmo anche in gelatina e foglie di menta, bosso, pomodoro e timo si fondono a pepe, arenaria e tufo. Al palato è ricco, spesso, di buon equilibrio e persistenza fruttata. Atina Dop Cabernet Riserva Duca Cantelmo 2017 Antica Tenuta Palombo 14% vol. Attraversa una lunga macerazione a bassa temperatura, con delicati rimontaggi; sosta per un anno in barrique di rovere francese. Rosso rubino, elargisce al naso sensazioni di agrumi essiccati e canditi, confettura di prugne, tabacco, vaniglia, cioccolato, dattero, wafer alla nocciola; sul fondo, rosa canina, ribes, lampone, mirto, menta ed eucalipto. Sorso pieno, potente ed elegante; si congeda con lunghe scie di frutti rossi. Frusinate Igt Merlot Tëlina 2020 Masseria Barone 14,5% vol. Una paziente e attenta macerazione estrae un colore rosso rubino e un raffinato bouquet dai sentori complessi di pepe, liquirizia, mora, mirtillo, lampone e ginepro; l’arancia rossa stempera il sottobosco e la pietra pomice, accompagnando ricordi balsamici di cipresso ed eucalipto. Bocca morbida, tannica, di bella verve acida e ricordi succosi di frutti di bosco. Lazio Igp Nero Buono Tenuta la Francesca 2019 Murgo 13,5% vol. L’estrazione protratta conferisce a questo Nero Buono una veste di colore rubino porpora e un goloso naso segnato da un tripudio di fragole, susine, prugne, arancia rossa anche in caramelle; petali di rosa e peonia giocano con il rabarbaro, la liquirizia, il pepe nero e la grafite. Al palato è tannico, ben strutturato, pervaso da una vena fresca che culmina con una lunga persistenza fruttata. Sannio Dop Chiusa Fiano Biologico 2018 Fosso degli Angeli 13,5% vol. La macerazione a freddo onora le caratteristiche di questo Fiano, di color giallo chiaro dorato e giocato in primis sulla freschezza dei fiori bianchi e del miele; seguono ricordi di agrumi, mela, melone e gelatine di limone che si alternano alla melissa e alla salvia. Onnipresenti, la nocciola secca e sensazioni salmastre. Gusto fresco e morbido, con gradevoli ritorni di scorze di agrumi e un finale sapido. Terre Siciliane Igt Insolia Natyr Biologico 2016 Baglio di Pianetto 15% vol. Fermentazione spontanea sulle bucce, macerazione protratta e nessuna aggiunta di solfiti. Dalla veste giallo oro, dona al naso sentori di cera, miele di acacia e incenso, per arrivare a un polposo frutto giallo e tropicale; in chiusura fanno capolino note di pepe e zenzero candito, addolcite da camomilla e fieno. Al palato è caldo, morbido, dall’acidità perfettamente integrata; termina con echi di spezie e cera.