ice dream
Morello Pecchioli

In principio furono ghiaccio e neve accompagnati alla frutta, poi genialità e intuizione resero cremosa quella fredda emozione, e nacque il gelato.

“Giacomo, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale / quando la gola e il corpo frale / bramavan il gelato che la vita incuora?” Ci scusi Giacomo Leopardi per aver imbrattato una sua poesia mettendo in rima la sua passione per il dolce freddo. Chiediamo scusa anche a Silvia, alla quale erano diretti i versi originali, ma quando il ghiribizzo scappa, anche se irriverente, scappa. Il poeta era talmente ghiotto di gelato che – la testimonianza è di Antonio Ranieri, l’amico intimo che lo ospitò a Napoli nell’ultimo periodo della sua vita – arrivava a ordinarne tre coppe al Caffè Angioli di via Toledo.

Il gelato era diletto, distrazione e gocce di effimero ottimismo nella filosofia pessimista del recanatese, che a Napoli muore mercoledì 14 giugno 1837. La giornata è afosa. Il caldo opprime i vivi e strazia i moribondi. In un appartamentino al secondo piano di un casamento popolare di vico Pero 2 (siamo nel quartiere Stella, parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca) si consumano le ultime ore di vita di uno dei più grandi e infelici poeti italiani. Divorato dalla febbre e tormentato dall’arsura, Giacomo chiede l’unica cosa che gli può dare sollievo in quel momento: un gelato. È l’ultimo desiderio del condannato, cosa costa esaudirlo? Il medico glielo nega: “Il freddo gli fa male, meglio una cioccolata calda”. E così l’autore dell’Infinito esala l’ultimo respiro sull’ultima delusione della sua vita.


L’episodio è raccontato dallo stesso Ranieri, che rimase al suo capezzale fino a quando l’amico gli morì tra le braccia. Lo scrive nel libro di memorie Notizia intorno agli scritti, alla vita ed ai costumi di Giacomo Leopardi, uscito vent’anni dopo la morte del poeta. Qualcuno non accolse bene quelle pagine e accusò Ranieri di mettersi in mostra e di aver imbastito la storia del gelato e altre ancora per nascondere che Leopardi era morto di colera. È vero. Ranieri riuscì a evitare che il cadavere del genio venisse sepolto in una fossa comune, ma la richiesta del gelato da parte del poeta in punto di morte è assai verosimile, credibile.


Il gelato era per Leopardi uno dei pochi diletti della vita. Nella sua giornata napoletana trovava un po’ di conforto al Caffè Angioli. Sedeva a un tavolino e ordinava:“Il mio gelato”. Non c’era bisogno di altre parole. Il cameriere gli serviva la solita, gigantesca, coppa di gelato alla crema che Giacomo attaccava con letizia. Gli scugnizzi napoletani corbellavano il piccolo, stortignaccolo, immenso uomo, dicendogli che il gelato era più grande di lui. Tutta invidia che non scalfiva i momenti di golosa felicità del conte poeta. In una poesia satirica sulla filosofia maccheronica (nel senso gastronomico dei maccheroni) dei napoletani, I nuovi credenti, definisce “arte” il lavoro del gelataio e dedica un verso a uno di questi artigiani del freddo,Vito Pinto, che con la sua “arte” e le ricche entrate può permettersi di acquistare il titolo di barone dal re Borbone.