Haut-Brion, mito non per caso
Fabio Rizzari

Nell’Oxford Companion of Wine, autorevole e ponderoso dizionario enciclopedico di 1088 pagine, la voce “Bordeaux” è di gran lunga la più estesa tra quelle dedicate a una singola regione vitivinicola: ben dieci pagine a doppia colonna, contro le quattro o cinque pagine sulla Borgogna e la Champagne o le striminzite due riservate al Chianti. Et pour cause: nessun altro territorio classico ha mai concentrato maggiori attenzioni da parte degli appassionati di vino, degli addetti ai lavori, del mercato internazionale, dei semplici neofiti.


Ripercorrere anche per snodi principali la plurisecolare storia del vino bordolese richiederebbe una trattazione quasi altrettanto estesa. Si può però individuare uno dei primi nuclei attivi da cui partono le fortune del rosso più famoso del pianeta: la sua “adozione” da parte dei bevitori anglosassoni. Le isole britanniche sono state decisive nella creazione della fortuna di Bordeaux. Ne hanno costituito non soltanto il mercato di riferimento, ma anche - più o meno involontariamente - la controparte ideale e pratica nel plasmare un vero e proprio modello stilistico. Nei preziosi appunti di degustazione del leggendario e ormai dipartito Michael Broadbent (The great vintage wine book, 1980), le note di assaggio di uno Château Lafite del 1825 non differiscono molto da quelle dei suoi discendenti del 1848, o del 1865, o del 1899, o del 1959, eccetera eccetera. Al netto delle differenze nel carattere della vendemmia specifica, è ovvio.


I rossi bordolesi di buona annata ritessono dunque da centinaia d’anni una trama simile: colore intenso ma non opaco, profumi freschi, balsamici, speziati, finemente vegetali, sapore ampio e strutturato e allo stesso tempo agile, flessuoso, rinfrescante.

Una silhouette deliziosa che gli inglesi apprezzano da tempo immemore.

Dico “inglesi” ma dovrei scrivere più puntualmente “londinesi”, dal momento che è Londra il vero motore del mercato dei Bordeaux.