Due luoghi: Carema (vigna) e Ivrea (sede aziendale)
Due produttori: i fratelli Roberto e Andrea Ferrando
Due vini: Etichetta Bianca ed Etichetta Nera
Una sola Doc: Carema
Verso la cappella di San Rocco, che delimita il confine con la Valle d’Aosta (il territorio di Carema è simile ma non identico a quello di Donnas), ci sono duemila metri quadri di vigna terrazzata (topia), letteralmente strappata alla roccia incombente della montagna, dove le pergole di picotendro, nome locale del nebbiolo, sono addossate alle pietre dei muri a secco e le viti si appoggiano a strutture ortogonali in legno. Siamo nella parte più occidentale, chiamata Laurey, dell’anfiteatro morenico che ruota attorno al borgo medievale di Carema, con le sue viuzze, le antiche case con le lose sui tetti, le fontane in pietra (scendendo lungo la strada s’incontra quella di via Basilia, originaria del 1571) e i pergolati tutt’intorno, spesso sorretti dai pilun in pietra e mattoni, colonne portanti imbiancate a calce che Mario Soldati definiva “doriche”. Le altitudini vanno dai 350 ai 700 metri. I terreni sono sciolti e sabbiosi, con un po’ di limo e zero argilla.
Questi duemila metri quadri di vigna, scalati su più livelli, appartengono ai Ferrando (il padre Luigi con i figli Roberto e Andrea), la cui proprietà a Carema conta su proporzioni minuscole, tipiche dell’area (4500 metri quadri totali), mentre la maggior parte dei due ettari complessivi che hanno in gestione è in affitto.
“Qui non si parla di ettari, ma di metri quadrati” dice Roberto, studi di Agraria a Caluso e tanta pratica in azienda al fianco del padre. È nato nel 1967, lo stesso anno della Doc. “A quel tempo gli ettari erano una quarantina, oggi sono la metà. Carema è chiamata paese-vigneto, perché al posto dei cortili c’erano le vigne, ogni famiglia aveva il suo pezzetto e gli spazi tra una casa e l’altra erano tutti vitati. Ai primi del Novecento gli ettari erano un centinaio. Non c’era tutto il bosco che vediamo oggi. A Carema produrre vino è sempre stato un secondo lavoro, un’attività hobbistica. I nonni raccontavano che chi aveva le vigne più in alto impiegava anche quaranta minuti a piedi per arrivarci, salendo e scendendo continuamente lungo le scale in pietra. È un lavoro che fai solo per fame. I minatori della Valle d’Aosta venivano a costruire i muretti a secco per un piatto di minestra e un letto. Nei secoli la popolazione locale ha costruito centinaia di chilometri di questi muri, alti anche cinque metri, portando la terra dal fondovalle e spostando massi di granito talmente grandi che ancora oggi ti chiedi come abbiano fatto.”