Questione controversa e divisiva quella sul vino sfuso. Chi ne guarda con cipiglio il generoso e grossolano fluire smodatamente conviviale e chi, per contro, si compiace della sua natura sobria, essenziale, schietta e sostenibile.
sfuso, altro che fiasco!
Gherardo Fabretti
A parlare di vino sfuso è probabile che affiorino alla mente immagini sbiadite d’infanzia, mano nella mano con i propri padri, fra tini e acri odori di cantina, attenti a non inciampare in qualche tubo di gomma, con la bocca ancora gocciolante di rosso, come serpenti appena stramazzati. A qualcun altro, invece, appariranno caraffe e quartini, quelli in cui trattorie e ristoranti ospitano bevande quasi sempre orfane di famiglia, la cui collocazione geografica potrebbe risiedere a pochi chilometri di distanza come su Alpha Centauri. Nell’uno e nell’altro caso, la scelta della forma sfusa non implicava valutazioni filosofiche né riflessioni di natura sociopolitica: era solo la scelta di chi non voleva impegnare troppo il portafogli.
Privo della sua veste d’ordinanza, infatti, il vino sembra perdere gran parte del suo valore: la sua degna collocazione non sembra più il tavolo dei ristoranti del Georges Duroy di Maupassant ma il lercio bancone dell’Assommoir di Zola: non un bianco di Johannisberg da versare nei bicchieri azzurri, ma un “vino color del sangue, così denso che si poteva tagliare con il coltello”. Insomma, l’idea che un vino sfuso potesse essere - in certi casi - assai più apprezzabile di certe bottiglie di pari prezzo era di là da venire, in Italia più che altrove. Ancora nel 1996, ad esempio, la seminale campagna pubblicitaria delle cantine sociali Ronco giocava tutto su un amichevole inganno domenicale: sullo sfondo di un minuetto di Boccherini, la padrona di casa simulava la stappatura di una bottiglia per celare la vera fonte di provenienza del vino, nient’altro che un cartone da 5 litri con tanto di pratico rubinetto. Quasi trent’anni dopo, invece, la figlia di quella signora mostrerebbe con orgoglio i suoi pratici cartoni, magari tra le note del Guglielmo Tell di Rossini (qualcuno ricorderà un discusso spot di Winelivery), di fronte ad amici che non si limiterebbero più, come allora, a chiedere “bianco o rosso”. I costumi, infatti, sono mutati, ed è proprio buona parte del mondo del vino a non essersene accorto, ruminando in grave ritardo sulla maniera migliore di coinvolgere una fascia anagrafica a lungo trascurata, quella dei nati tra l’inizio degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta (i cosiddetti Millennial), che pure si appresta a diventare la più prossima ai suoi interessi. Molto più esigenti e informati dei genitori, i trenta, quarantenni di oggi da un lato vogliono saperne di più su quello che comprano (e sulle relative implicazioni ambientali e sociali), mentre dall’altro hanno meno potere d’acquisto rispetto a chi li ha preceduti. Fatta eccezione per i grandi appassionati, mostrano scarso interesse verso i punteggi, le annate e le denominazioni; allergici alle eulogie chilometriche, preferiscono le recensioni precise e sintetiche.