Vette estreme e laboriose. Massimo Zanichelli Ho fatto un viaggio, anzi molti viaggi che a volte assomigliavano a delle rêveries, lungo la montagna del vino italiano. Sono partito dalle pendici del Monte Bianco, il più alto d’Europa, dove dimora il Blanc de Morgex, per arrivare alle falde dell’Etna, un vulcano chiamato a Muntagna. Dalle Alpi alle Piramidi, come si usa dire. Non potrebbero esistere due realtà più dissimili, da ogni punto di vista: climatico, pedologico, ampelografico, enologico, idiomatico. Eppure hanno una cosa in comune: raggiungono altitudini estreme. Morgex supera i 1.000 metri, arrivando ufficialmente a 1.200 (le quote più alte d’Europa), l’Etna raggiunge facilmente gli 800 metri. In ambedue le zone la vigna si distende prevalentemente su dei pianori anziché disporsi in diagonale, come se ci fosse un rapporto inversamente proporzionale tra alta quota e pendenza, ed è un’eccezione nell’ambito della viticoltura montana. Sulla natura del vino di montagna Quali sono dunque i suoi caratteri specifici e inalienabili, le sue prerogative? La presenza della montagna ne è il postulato. Rimarcalo non è blanda tautologia o pleonastica ovvietà: la montagna non è semplice sfondo, mera cornice o scontato orizzonte, ma parte integrante, connaturata. La viticoltura deve nascere non solo in un contesto montano, ma scaturire da uno strenuo corpo a corpo con la roccia e la rupe. La vigna è cresciuta su queste inospitali piattaforme in modo frammentario, strappando lembi di superficie – gli appezzamenti vitati dell’arco alpino si contano in metri quadrati, non in ettari – attraverso un lavoro tenace, millenario da parte dell’uomo. Tra vite e montagna c’è simbiosi: l’una è consustanziale all’altra. Lo scenario della viticoltura montana può assumere forme ancestrali, primitive. Le loro rocce possono sembrare antropomorfe come in certi quadri di Leonardo o Bramantino, le loro pareti assumere sembianze organiche, epidermiche come in alcuni dipinti di Salvador Dalí o in certe architetture di Antoni Gaudí. Vista dal basso, la montagna del vino risulta incombente, assoluta, impenetrabile, qualcosa che si avvicina al sublime: “Effetto esercitato dalla grandezza dei sentimenti: grandezza della materia, dello spazio, della potenza, della virtù o della bellezza”, “Vi è sublime ogni volta che la mente contempla una cosa da cui è sovrastata, percependone la superiorità” scrive John Ruskin in Pittori moderni. È come se fossimo davanti alle rocce di Hanging Rock nel Picnic misterico di Peter Weir, con i suoi flauti panici che attirano la mente verso esperienze estreme. Dall’alto, invece, quando siamo dentro le vigne, la percezione diventa vertiginosa se guardiamo il fondovalle, infinita se guardiamo verso l’orizzonte: in ambedue i casi la distanza sembra siderale. È come osservare il mondo dal precipizio di roccia di quel celebre quadro di Caspar Friedrich, in mezzo ai silenzi immobili che sgomentavano Pascal e Leopardi. La presenza della montagna porta con sé l’idea e conseguentemente il valore dell’altitudine. Non c’è viticoltura montana senza l’alta quota. Il cervim la fissa con generosità a un minimo di 500 metri, i libri di geografia delle scuole medie, con maggiore proprietà, a 600. Dunque da 600 al valore estremo, rarefatto di 1.200, suo multiplo. Ma questo doppio numerico nasconde un risvolto cruciale: la quota non è tutto, c’è una viticoltura di montagna che cresce anche ad altitudini inferiori, come a Donnas e soprattutto in Valtellina, dove la fascia altimetrica considerata più vocata è compresa tra i 400 e i 500 metri, quote che tecnicamente non apparterrebbero alla viticoltura di montagna, eppure nessuno, e con ragione, potrebbe mettere in forse lo statuto montano di questo territorio. Si affacciano dunque altri elementi decisivi, come le pendenze, in Valtellina particolarmente erte. La viticoltura di montagna trova nel lato più aspro e accidentato la propria ragion d’essere: viene non a caso chiamata estrema, aggettivo che oggi, per vari motivi, si preferisce a eroica. Perno dell’esistenza e della sussistenza di questa viticoltura sono i terrazzamenti, delimitati da muri a secco, frutto del millenario ingegno empirico contadino: un sistema che permette alla vigna di essere coltivata su scabre superfici di roccia altrimenti inabitali. Gli spietramenti hanno generato muri di barriera e di confine come le meurdzie valdostane e le mürache valtellinesi o piccole architetture rurali come i turriti etnei. La viticoltura cresce in montagna tra mille asprezze e difficoltà: il sacrificio di lunghe e faticose lavorazioni manuali (una media di 1.000-1.200 ore per ettaro all’anno) talvolta non è sufficiente e si deve ricorrere al trenino a cremagliera o addirittura all’elicottero. Le sue forme presentano delle analogie insospettate tra territori diversi: così alcuni scorci del Torrette ricordano quelli della Sassella e Donnas richiama in più punti il Grumello – come se fossero gemelli eterozigoti – mentre la Val di Cembra ha più di una somiglianza con la Valle Isarco. L’Etna è invece l’eccezione: è un luogo a sé, sia nel contesto regionale (per la Sicilia è un corpo alieno dal punto di vista altimetrico, climatico, pedologico, ampelografico) sia in quello nazionale. Le morfologie invece divergono (le Alpi Graie valdostane sono diverse da quelle Retiche valtellinesi e dalle Dolomiti tra Trentino e Alto Adige) così come le individualità dei rispettivi territori: è la differenza che sostanzia il mondo del vino. In Valtellina primeggia il rittochino, in Valle di Cembra il girapoggio. La prima è, come la Valle d’Aosta e la Valle Isarco, di origine morenica, la seconda vulcanica come l’Etna, eppure le piattaforme pedologiche di queste ultime due differiscono: la terra cembrana è rosaceo-porfirica, quella etnea è nero-lavica. Tra le pergole di Morgex e di Donnas, che pur abitano nella stessa regione (e l’inusuale andamento ovest-est della viticoltura valdostana trova specularità in quella valtellinese), ci sono differenze sostanziali, addirittura radicali se paragonate a quelle della Valle di Cembra. In Valtellina e in Valle Isarco è diffusa la spalliera, sull’Etna l’alberello. La chiavennesca valtellinese diverge dal picotendro valdostano benché ambedue siano varietà di nebbiolo, il petit rouge del Torrette è diverso dal groppello della Val di Non e non c’è nulla in comune tra il prié blanc di Morgex e i vitigni esclusivi ma non autoctoni – kerner, sylvaner, grüner veltliner – della Valle Isarco. Per tacere dei nerelli e del carricante dell’Etna, che non assomigliano a nessun altro. Così gli idiomi, i dialetti, le lingue locali: cos’hanno in comune il patois valdostano con il tedesco sudtirolese, il dialetto valtellinese con quello cembrano? La Penisola è terra di particolarismi. Così i vini, plurimi e irriducibili, generano un caleidoscopio di individualità, benché la loro appartenenza a un contesto montano, dove si imbevono di altitudine, insolazione ed escursioni termiche, li renda – siano essi bianchi o rossi – stilizzati e filigranati, succosi e contrastati, snelli e persistenti: in una parola verticali. Scenari A , tra gli 800 e i 1.200 metri di quota, si respira un’aria rarefatta – più tersa e pungente – che invano si cercherebbe nel resto della Valle d’Aosta. La viticoltura ha radici antiche e sembianze ancestrali. Morgex Il prié blanc, varietà valdostana che cresce solo qui, dimora su basse pergole in pietra (o cemento) e legno, così basse – per resistere al clima rigido e alle gelate l’uva deve rimanere più vicina possibile al suolo per immagazzinare il calore rilasciato dalle rocce – che la vendemmia viene spesso eseguita in ginocchio, da seduti o addirittura sdraiati a terra. Vino artico, siderale, il Blanc de Morgex et de La Salle è laminato e luminoso, aspro e succoso, penetrante e longevo. Profuma di erbe di montagna e la sua acidità ricorda l’agrume. Poco più sotto, sopravvive all’abbandono, che qui, come in altri luoghi di montagna, è il segno negativo dei sacrifici richiesti da questo tipo di viticoltura. Sono solo 7 gli ettari vitati dell’Enfer d’Arvier (il Blanc de Morgex et de La Salle, che pur è un’enclave, ne ha 26), dove il petit rouge cresce tra balze e burroni, terrazze e gradoni, e molti rittochini scendono a precipizio verso la testa di due calanchi dalle forme organiche. È un rosso irrequieto dal colore leggero, dai profumi di erbe e selve, di lampone e pepe, dal sapore selvatico di ciliegia e amarena. Arvier Al centro della valle, il petit rouge trova il proprio coronamento sul massiccio del Torrette, la cui mole enorme e prominente viene difficilmente contenuta dai grandangolari. È l’area storica di un rosso che è oggi la denominazione più estesa della regione (una sessantina di ettari), ma che sulle terrazze del monte annovera sparute quanto intrepide lingue e lembi di vigna delimitate da muri a secco lungo orli di dirupo. Sui crinali di questa “torre di vedetta”, dove lo sguardo sembra abbracciare l’infinito e dove l’esposizione solatia fa crescere una vegetazione da clima arido (pini silvestri, mandorli, melograni, olivi, cachi), fanno compagnia al petit rouge altre primizie valdostane come il mayolet, il cornalin, il vuillermin, il fumin. Il Torrette Superiore è un rosso speziato e sanguigno, mediterraneo e montano, tra note di gariga e fumigazioni rocciose, accensioni balsamiche, elementi ematici e piccoli frutti selvatici. A , nella bassa valle, la vigna assume fogge severe e rupestri, aggrappata a costoni immensi di roccia, frammentati o aggettanti, i cui terrazzamenti circondati da chilometri di muri a secco formicolano dovunque e le cui larghe pergole sembrano incombere sulle case del fondovalle. La denominazione riunisce, accanto a quello omonimo, i comuni di Pont Saint-Martin, Perloz e Bard e accanto al picotendro (nebbiolo) altre uve complementari come neyret, vien de Nus, freisa e barbera, per una ventina di ettari nell’habitat più caldo dell’intera valle. Scandito da un colore granato che mira alla trasparenza, da profumi montani ed eterei, il Donnas seduce per iridescenza floreale e intransigenza tannica. Donnas La viticoltura di montagna trova nel lato più e la propria ragion d’essere: viene non a caso chiamata , aggettivo che oggi, per vari motivi, si preferisce a . aspro accidentato estrema eroica Il più esteso ed emozionante susseguirsi di vigna terrazzata si trova lungo le pareti retiche della Valtellina: 820 quasi ininterrotti ettari per 25.000 terrazzi e 2.500 km di muri a secco lungo una quarantina di chilometri di nuda e prominente montagna che da Ardenno arriva fino a Tirano. Dagli scoscendimenti della piccola Maroggia al trionfo della roccia montonata della Sassella, dagli affioramenti rocciosi del Grumello agli affocati tornanti dell’Inferno, dagli ondulati nastri vitati a perdita d’occhio della Valgella fino ai rittochini disposti “a pioggia” del Tiranese, il senso del vino per la montagna è qui totalizzante. La forte insolazione di questo versante esposto a mezzogiorno permette la crescita di piante come i fichi d’India, avvinghiati a tal punto alla roccia, tra le cui fessure trovano spazio le radici delle viti, da convivere d’inverno con la neve. Se lo Sforzato di Valtellina, da uve chiavennasca (nebbiolo) fatte parzialmente appassire, è il vino più strutturato e rinomato, la natura scabra e assoluta di questi dirupi trova la sua più fedele traduzione nel carattere del Rosso di Valtellina, vino minimalista e “leggero”, sottile e penetrante, perfetta silloge della rarefazione montana, e soprattutto in quello più austero e radicale del Valtellina Superiore, l’espressione pura e cangiante delle cinque sottozone sopra citate e di tutta la denominazione: incanta con i suoi profumi di fiori, viole, cuoio, fumigazioni, rocce, radici, con il suo tannino filigranato e regale, traducendo in chiave montana le virtù, più terrose che fruttate, del suo nobile vitigno. In i meleti hanno colonizzato tutto l’altopiano, mentre a stento sopravvive l’antica nobiltà del groppello, la cui fortuna risale all’Impero austro-ungarico e il cui declino è coinciso con la nascita, all’inizio degli anni Cinquanta, del lago artificiale di Santa Giustina, sulla cui terza sponda viene coltivato tra i 600 e i 750 metri di quota in una riserva indiana di tre ettari o poco più tra declivi e canyon. Senza nessuna doc che lo disciplini o presidio che lo protegga, oggi questo vino è scomparso dai radar della produzione e della comunicazione, recitando il ruolo del sopravvissuto. Val di Non Il Groppello di Revò è un rosso di lago e di terra, di succosità e asprezza, di sottobosco e sangue, di pepe e garrigue, di sprezzature acide e gioiosa vivezza. Terrazzamenti, forre, pendenze sdrucciolevoli e pergole a perdita d’occhio. È la struggente, indomita, erta bellezza della , territorio estremo che in Trentino abbandona il mainstream del fiume Adige per incunearsi verso nord-est lungo il torrente Avisio, dove la vigna cresce su fianchi scoscesi tra boschi, frutteti, borghi e masi. Valle di Cembra Lungo i suoi 700 ettari vitati per 708 chilometri di muretti a secco si coltivano con successo la schiava, il pinot nero e il riesling, ma il vino principale è il precoce e produttivo Müller Thurgau, su cui grava tuttora una nomea di corrività ma che in un terroir come questo, tra alta quota, terreni porfirici e mani sensibili, dispiega tutta la finezza aromatica e l’eleganza gustativa di un bianco d’alta quota. La è per l’Alto Adige quello che la Valle di Cembra è per il Trentino. Un decentramento geografico (segue l’andamento sdrucciolevole dell’Isarco verso nord-est anziché il corso dell’Adige) e un apice: è l’area vitivinicola più settentrionale d’Italia (piove poco e c’è sole quasi tutto l’anno, un’anomalia per un contesto alpino), ed è la roccaforte dei bianchi sudtirolesi (le uve rosse occupano circa il 10% dei 400 ettari complessivi). La sua morfologia alterna i fianchi severi e stretti intagliati nella roccia a precipizio poco dopo l’altopiano del Renon, ancora terra, anzi roccia, di Pinot Bianco e Sauvignon, alla luminosa, spettacolare conca di Bressanone, dove primeggiano l’aromatico Kerner, il fragrante Sylvaner e il pepato Grüner Veltliner (senza dimenticare l’aristocratico Riesling). Sono bianchi cristallini, prismatici, che portano al diapason il nitore dei profumi e la purezza del sorso in un crescendo di sensazioni e sfumature. Valle Isarco : l’ – rigorosamente al femminile, almeno secondo i catanesi (per il maschile c’è il tautologico Mongibello, crasi di “monte” in due lingue, il latino mons e l’arabo dijebel) – richiama l’eccedenza, anche nella produzione: dalla “terra di nessuno” dei primi anni Duemila ai circa 1.185 ettari attuali. È dislocata nella parte orientale della Trinacria, di cui rappresenta un corpo estraneo e meraviglioso, un cono colossale con i suoi borborigmi che tuttora sbuffa e talvolta erutta. Un’entità plurima, lunare e solare, continentale e mediterranea, dai colori cangianti (il nero della terra e dei muri, il bianco della cima innevata, il verde della vegetazione, l’azzurro del cielo e del mare) e dalle stravaganze cardinali: a nord fa caldo dunque ci sono le uve rosse, mentre a est, dove piove tanto, si coltivano i bianchi (durante le eruzioni non è infrequente vedere del ripiddu – i lapilli – sulle foglie della vite). Quest’ultimo è il terroir elettivo dell’Etna Bianco Superiore e del suo vitigno principe, il carricante: profuma di zolfo e pietra pomice, di scorza d’agrume e idrocarburi, mentre la bocca è succosa, sulfurea, sferzante. Ha la lava nel sangue, non meno dell’Etna Rosso, il re del versante nord, che riunisce i due nerello, il mascalese (il maggiore) e il cappuccio (l’altro), tra sentori di cenere e macchia mediterranea, note piccanti e scioltezza sapida. Anomala, divergente, eccentrica Etna Per Approfondire L’autore ha di recente pubblicato un libro dedicato alla viticoltura montana, primo volume di una tetralogia. Tre anni e mezzo di viaggi, ricerche, dialoghi, degustazioni, fotografie alla ricerca dell’essenza dei vini di montagna nelle sue varie forme: storiche, geografiche, umane. All’interno del volume un inserto fotografico a colori che procede per analogie, accostando elementi ricorrenti di territori diversi. (Massimo Zanichelli, I quattro elementi del vino italiano. La Montagna, Bietti, pp. 648, € 35)