Ho fatto un viaggio, anzi molti viaggi che a volte assomigliavano a delle rêveries, lungo la montagna del vino italiano. Sono partito dalle pendici del Monte Bianco, il più alto d’Europa, dove dimora il Blanc de Morgex, per arrivare alle falde dell’Etna, un vulcano chiamato a Muntagna. Dalle Alpi alle Piramidi, come si usa dire. Non potrebbero esistere due realtà più dissimili, da ogni punto di vista: climatico, pedologico, ampelografico, enologico, idiomatico. Eppure hanno una cosa in comune: raggiungono altitudini estreme. Morgex supera i 1.000 metri, arrivando ufficialmente a 1.200 (le quote più alte d’Europa), l’Etna raggiunge facilmente gli 800 metri. In ambedue le zone la vigna si distende prevalentemente su dei pianori anziché disporsi in diagonale, come se ci fosse un rapporto inversamente proporzionale tra alta quota e pendenza, ed è un’eccezione nell’ambito della viticoltura montana.
Sulla natura del vino di montagna
Quali sono dunque i suoi caratteri specifici e inalienabili, le sue prerogative?
La presenza della montagna ne è il postulato. Rimarcalo non è blanda tautologia o pleonastica ovvietà: la montagna non è semplice sfondo, mera cornice o scontato orizzonte, ma parte integrante, connaturata.
La viticoltura deve nascere non solo in un contesto montano, ma scaturire da uno strenuo corpo a corpo con la roccia e la rupe. La vigna è cresciuta su queste inospitali piattaforme in modo frammentario, strappando lembi di superficie – gli appezzamenti vitati dell’arco alpino si contano in metri quadrati, non in ettari – attraverso un lavoro tenace, millenario da parte dell’uomo. Tra vite e montagna c’è simbiosi: l’una è consustanziale all’altra. Lo scenario della viticoltura montana può assumere forme ancestrali, primitive. Le loro rocce possono sembrare antropomorfe come in certi quadri di Leonardo o Bramantino, le loro pareti assumere sembianze organiche, epidermiche come in alcuni dipinti di Salvador Dalí o in certe architetture di Antoni Gaudí.