Parola d’ordine: sostenibilità. Ambiente. Roberto Cipresso È doveroso, necessario, inevitabile parlare di sostenibilità in questo tempo, ma, aggiungerei, anche bello, stimolante, interessante. “Sostenere” dal latino sustineo: sorreggere, difendere, aiutare, così come, in senso figurato, nutrire e sostentare, ma anche resistere, far fronte e, infine, sopportare. Il tema, onnipresente in tv o sui social e protagonista di molte lezioni di Educazione Civica a scuola, è il filo conduttore, manifesto o sotteso, della maggior parte degli incontri tra capi di Stato, il punto focale di convegni e seminari tra uomini di scienza, il nucleo ispiratore di dibattiti etici e filosofici. Cosa dunque possiamo aggiungere al molto che già si dice? Intanto rapportarlo alla nostra realtà, e al mestiere/passione che svolgiamo; lo facciamo in nome dei nostri figli, più in generale delle generazioni che seguiranno, dell’ambiente in senso lato e, più da vicino, dei piccoli e cari sistemi di suoli e di vita che quotidianamente ci danno tanto, ai quali è anche ora di restituire qualcosa. Sappiamo che il concetto di sostenibilità è sempre in corso di definizione, attraverso una serie di aggiornamenti successivi segnati da acquisizioni di consapevolezza collettiva e, soprattutto, da accordi politici, che trovano forse nell’Agenda 2030 il più efficace e completo riassunto. Tra le tante accezioni del termine, come al solito propenderei per quella più ottimistica, che credo sia l’unica in grado di essere attuata con successo e produrre risultati concreti; una sostenibilità che non coincida necessariamente con “decrescita”; che non sia associata a regressioni, nostalgie del passato, o per forza a rinunce e contrizioni. Al contrario, l’idea che trovo più interessante è quella che vede ancora una volta la centralità dell’uomo, del progresso, della ricerca, orientati, però, verso l’obiettivo di una nuova armonia tra tutte le componenti del cosmo, che solo brillanti e “illuminate” scoperte possano rendere realizzabile. Siamo infatti soliti pensare alla sostenibilità come a qualcosa che riguarda solo l’impatto delle attività umane sull’ambiente, e a trascurare di conseguenza le altre voci che pure l’Agenda 2030 contempla; quelle che riguardano gli equilibri sociali, ma anche i capitoli inerenti alla prosperità dei diversi settori economici, da perseguire in linea con le altre istanze, e nella prospettiva della massima equità possibile nella distribuzione delle ricchezze. Immagino, quindi, come una sorta di nuovo “rinascimento”, che, grazie al filo conduttore dell’ingegno umano, renda possibile il migliore, più rispettoso e più produttivo accordo tra tutte le note in gioco, come una specie di collegamento virtuoso tra impulsi che prendano avvio da istanze diverse e si rafforzino a vicenda verso un grande fine comune. È una visione utopica del futuro? Con un’attenta pianificazione, con un lavoro che coordini il progressivo cambio di mentalità dei popoli della terra con una presa di posizione chiara da parte dei legislatori dei diversi Paesi potrebbe non esserlo, e rivelarsi invece l’unica strada in grado di salvarci dalle catastrofi ambientali e sociali che altrimenti potrebbero attenderci. Per fare alcuni esempi concreti, veniamo adesso a ciò che conosciamo di più e meglio: la sostenibilità ambientale nella pratica quotidiana della viticoltura e dell’enologia. Si parte, come sempre, dal principio, e le considerazioni da fare sono, in realtà, già abbastanza note a tutti gli addetti ai lavori: gli appezzamenti di terreno da dedicare all’impianto viticolo devono essere i più vocati per natura, ovvero quelli che per le proprietà chimico-fisiche del suolo, la disponibilità idrica, la giacitura e l’esposizione richiedano, per la messa a dimora del vigneto e per la sua futura gestione, la minore quantità possibile di interventi esterni; la scelta dei vitigni da impiantare – e dei relativi portinnesti – segue lo stesso principio, si ragiona non necessariamente per tradizione; si evita magari anche la stravaganza fine a se stessa; si conduce invece una scrupolosa ricerca, per scegliere, secondo criteri di affinità e in base al confronto con ciò che succede in aree del mondo simili alla nostra, il materiale genetico che dia garanzie di migliore adattabilità alle condizioni in essere. Come il nostro lettore starà notando – e in linea con ciò che abbiamo premesso – salta subito agli occhi che i criteri che dobbiamo considerare per la scelta di appezzamento e materiale da impiantare sono del resto i più idonei per avere successo sia nella direzione della sostenibilità sia nella prospettiva di ottenere un prodotto finale di migliore qualità, che interpreti in maniera più adeguata il contesto che lo ospita, che sappia tradurlo e trasmetterlo più fedelmente. È, insomma, un primo lampante esempio di ciò che si intende quando si pensa a un concetto di sostenibilità i cui elementi costitutivi si sorreggano e motivino a vicenda. Andiamo avanti: anche la gestione del vigneto, resa relativamente “semplice” dalle buone scelte di impostazione, dovrà procedere cercando di ridurre al minimo gli apporti di ogni genere. È qui in primo luogo importante la salvaguardia del suolo, evitando al contempo la somministrazione di diserbanti di sintesi; sappiamo già dalla pratica quotidiana che è possibile perseguire entrambi questi obiettivi, ad esempio alternando l’uso dei macchinari utili a estirpare le erbe infestanti con la pratica dell’inerbimento/sovescio, in modalità e gradazioni diverse in funzione dei differenti ambienti di coltivazione e delle rispettive disponibilità nutrizionali e idriche, variabili anche in funzione dell’alternanza delle stagioni . E qui si innesca di nuovo un meccanismo virtuoso che si autoalimenta, perché il ricorso a essenze erbacee alternate alle viti negli spazi interfilari – specie se leguminose – se abbinato al recupero e all’interramento dei residui colturali, permette di fertilizzare naturalmente il suolo, rendendone migliore anche la struttura e riducendo ancora una volta l’apporto di concimi dall’esterno. Allo stesso modo, la convivenza tra specie vegetali differenti aumenta la biodiversità in senso generale, e “fortifica” il “sistema vigneto”, consentendoci di contrastare naturalmente alcune patologie. La lotta ai parassiti resta, in ogni caso, uno dei punti più critici nell’ottica della sostenibilità del vigneto, perché sappiamo che è davvero difficile contrastare i patogeni, specie fungini, senza il ricorso a prodotti di sintesi; in attesa che l’ingegno umano e la ricerca scientifica ci permettano di conciliare come vogliamo la qualità del prodotto finale con l’impianto di vitigni resistenti alle malattie – obiettivo che non è ancora raggiunto a pieno ma che è molto meno distante di quanto poteva apparire solo qualche anno fa – il criterio da perseguire è sempre quello del buon senso, e dunque di attuare una gestione del verde che permetta di prevenire il più possibile gli attacchi, e intervenire in modo più aggressivo solo a seguito di monitoraggio delle condizioni esterne, ovvero quando il rischio di infezione sia davvero concreto. Per ciò che riguarda il lavoro di cantina, vale la qualità della materia prima come punto di partenza; un’uva sana, raccolta al momento ottimale, chiede molto poco per esprimere al meglio se stessa e il suo terroir nel vino che verrà; fatti salvi, però, gli interventi necessari alla conservazione del prodotto, imprescindibili affinché il frutto del nostro lavoro sia davvero godibile e in grado di arricchire ed emozionare chi lo assaggia; anch’essi saranno tanto minori quanto più sana e integra sarà l’uva raccolta. Insomma, una sorta di antica e insieme moderna saggezza associata alle innovazioni tecniche, al progresso e alla ricerca scientifica; non credo invece che il concetto di sostenibilità possa essere esemplificato, esaurito e racchiuso in una sola etichetta - mi riferisco al “biologico”, al “biodinamico” o simili, come da diktat e regolamenti di questi diversi regimi - quanto piuttosto che debba riconoscersi in una serie di atteggiamenti da dosare e stabilire alla luce del binomio buonsenso/ razionalità anche giorno dopo giorno, in funzione di ciò che la stagione e le singole situazioni suggeriscono. Centralità dell’uomo, del progresso, della ricerca, orientata verso una nuova armonia tra le componenti del cosmo. Ad esempio: il biologico consente per la viticoltura l’uso di anticrittogamici chimici ad azione preventiva e “in copertura”, che in caso di primavere/estati piovose devono essere somministrati con numerosi trattamenti molto ravvicinati tra loro, e che possono quindi finire per essere, nel loro insieme, meno sostenibili dell’uso sporadico, in alternativa, di un prodotto sistemico. Per dare una misura più completa ed esaustiva del grado di sostenibilità del lavoro in vigna e in cantina, trovo invece più efficaci, ad esempio, gli indici che si utilizzano per misurare l’impronta carbonica dell’azienda nella sua interezza, che assegnano punteggi a tutte le attività che si svolgono nei diversi cicli colturali e che comportino l’emissione di gas serra nell’ambiente. Come si fa a ridurre l’impronta carbonica dell’attività aziendale? Si limitano al minimo gli interventi esterni sull’agroecosistema – minore quantità di passaggi di macchinari, utilizzo di energie derivanti da fonti alternative ai combustibili fossili, e via dicendo – e/o si abbinano alle colture con elevato impatto carbonico altre attività che viceversa sottraggano gas serra all’ambiente, porzioni di superficie ospitate da bosco o da colture arboree dalla facile gestione agronomica, ad esempio. Ed ecco che torna l’idea di circuito virtuoso: con gli interventi in sottrazione si aumenta la biodiversità, e a medio-lungo termine questo porta inevitabilmente a un sistema più equilibrato e autosufficiente. Come vedremo anche in seguito, alla base del complesso di azioni che si possono mettere in campo è anzitutto necessario un cambio importante di prospettiva e una visione lungimirante e ambiziosa, che veda ogni singolo intervento come un piccolo passo verso un mondo migliore, in tutte le sue possibili accezioni.