L’idea contemporanea
di trattoria.

Gherardo Fabretti

In un racconto del 1946 di Ennio Flaiano (Uno sconosciuto), due uomini si incrociano per strada. Uno, il più anziano, è certo di conoscere il suo interlocutore, eppure, nonostante gli sforzi, gli rimane solo la sensazione di “una curiosa conoscenza che non può essere provata”. Il giovane, forse per cortesia, chiede allora se vada tutto va bene; l’altro, con una confidenza inaspettata, risponde: “Certo, tutto bene. Ma gli anni passano e abbiamo dimenticato nomi e luoghi che pure ebbero una certa importanza. Ora è come se non fossimo più noi. È abbastanza triste, no?”. Anche quando si parla di trattorie, le malinconie sono all’ordine del giorno. Cosa curiosa, entrambe (le trattorie e le malinconie) sembrano essere diventate approdo non infrequente dei giovani, per i quali quella conoscenza di cui parla il protagonista di Flaiano davvero non può essere provata, essendo quelli troppo verdi per avere memoria – per dirne una – dei bruni tavolacci dei locali di Brera, quelli della Vita Agra di Luciano Bianciardi, senza tovaglie né tovaglioli, “dove la pastasciutta te la scodellavano con le mani” e il conto si pagava in lire. Di quella Brera scapigliata e stracciona rimane oggi un simulacro immaginario, buono per i turisti, eppure indicativo di una tendenza diffusa: in un mondo sempre più votato al digitale, un rigurgito di reazione, per quanto disimpegnato e probabilmente relegato alle sere del weekend, è inevitabile. Oggi più che mai, la ricerca di posti sinceri, per citare una famosa pagina Instagram, si è fatta spasmodica in tutta Italia, soprattutto nelle grandi città, così che persino una pastasciutta spiattellata con malo garbo verrebbe accolta con gioia da qualcuno se calata tra pareti di perlinato e banconi d’alluminio. Questi, come altri topoi ricorrenti nell’immaginario, costituiscono certificazioni di senso, rassicuranti dimostrazioni della sopravvivenza di un mondo che si vorrebbe di plurisecolare tradizione, ma che in realtà, a dispetto di quanto reputa l’inconscio collettivo, parte da un momento assai più recente: il secondo dopoguerra. Prima di allora, infatti, di tavole imbandite se ne vedevano poche. I posti decantati dalle guide di Hans Barth, Umberto Notari e Paolo Monelli erano sì magnifici, ma perché lo fossero anche i pasti degli italiani era necessario condirli con la stessa inventiva di Amalia Moretti Foggia, la pediatra prestata al mondo della cucina, che nei famigerati opuscoletti di “cucina autarchica” insegnava a preparare una “torta squisita senza uova, senza burro e senza zucchero”. La trattoria moderna, calda e confortevole, è dunque apparizione recente, evoluzione della più antica e sinistra bettola, e della meno blasonata osteria, quella di Collodi, Manzoni e Verga (ma anche di Saba, De André e Guccini), dove si metteva a disposizione un tavolo e delle sedie in tempi in cui il mobilio di casa non era un bene scontato, e si serviva principalmente da bere, lasciando agli avventori la possibilità di portarsi dietro il companatico, e di unirlo a una scarna offerta di formaggi e salumi dei dintorni.