L’espressione storica di Mazzon nella giovane voce di due donne. Fabio Rizzari Un tempo nemmeno tanto remoto il pinot nero era un vitigno come tutti gli altri. Della composita famiglia dei pinot la varietà più citata dai bevitori era semmai il pinot grigio, dominatore dei mercati esteri (soprattutto americani). D’accordo, citata forse non proprio dai bevitori più smaliziati. Ma quello ero lo stato dell’arte. Poi, grosso modo una ventina d’anni fa, la fama dell’uva pinot nero è cresciuta esponenzialmente. Fino a farla uscire dalla normale tassonomia ampelografica per riassorbirla in un’altra categoria, quella dei modelli simbolici assoluti, indicatori di una qualità infallibile. Qua e là con una sfumatura di snobismo: il cachemire (“io non sopporto la lana, posso mettere solo il cachemire”), gli orologi Rolex, le Bentley, e simili. L’associazione analogica con oggetti di lusso – diciamo pure piuttosto ostentati e modaioli – non è casuale: prodotto rurale per i vignaioli, base di vini leggendari per gli enofili, “oggetto culturale complesso” per i critici enologici più rompiscatole (tra i quali il sottoscritto), il Pinot Nero è oggi un valore per così dire transvinico: tutti o quasi sanno che per fare bella figura al ristorante si va sul sicuro ordinando un Pinot Nero. La responsabilità maggiore va ovviamente ascritta alla Borgogna, luogo iconico par excellence, ma restando in ambito italiano non ci sono dubbi che il centro più noto per l’allevamento e la vinificazione dell’idiosincratico vitigno sia l’Alto Adige, dove vigne di pinot nero punteggiano il territorio con una notevole frequenza. La collina di Mazzon, una ventina di chilometri a sud di Bolzano, è tuttavia il vero cuore della produzione regionale. Presente da almeno un secolo e mezzo a Mazzon (la prima fonte documentale risale al 1869), il pinot nero trova qui un ambiente particolarmente ben disposto a gestire il suo temperamento altrove quasi intrattabile. I rilievi del parco naturale del Monte Corno, a nord, fanno da contrafforti per impedire la discesa di aria fredda, mentre il tiepido vento meridionale dell’Ora del Garda addolcisce il clima nel primo pomeriggio. La particolare conformazione della collina, una settantina di ettari vitati esposti a ovest, propizia poi un irraggiamento solare prolungato fino a tarda sera, in estate, rispetto ad altre aree vicine. Nessun calore estremo, nessun gelo estremo; al netto ovviamente delle annate eccezionali. Il microclima di Mazzon è insomma più subcontinentale che mediterraneo, e capace di arrotondare tutti gli spigoli che i diversi andamenti climatici propongono in modo quasi inevitabile. “La collina di Mazzon poggia su un potente pacchetto di rocce calcaree di epoca triassica tra cui dominano le arenarie, le siltiti rosse e gialle e i calcari assieme a marne e dolomia”; “queste caratteristiche, segnatamente l’elevato contenuto di calcare, la tessitura franco-limosa e l’elevato contenuto di scheletro, […] rendono i terreni di Mazzon particolarmente adatti alla produzione di un Pinot Nero di elevata qualità”: queste citazioni, prese dalla snella monografia curata da Peter Dipoli e Michela Carlotto su Mazzon e il suo Pinot Nero (2009), dovrebbero a margine soddisfare gli amanti dei dati geologici. Il primi imbottigliamenti di Pinot Nero (“Lichter Burgunder, Eigenbau-Mazzon”) provenienti da questo celebrato declivo, risalgono alla fine dell’Ottocento e si devono a Vogl von Fernheim, antico proprietario di quella che è oggi l’azienda Gottardi, nucleo produttivo che è difatti il primo protagonista dell’articolo. Gottardi è un nome storico per Mazzon, indissolubilmente legato al successo del Pinot Nero altoatesino. Il vero creatore di questa fama è senza dubbio Bruno Gottardi, che ha firmato rossi d’antologia a partire dalla metà degli anni Novanta (se si escludono partite di vino di poco precedenti, commerciate solo in Austria). All’epoca i Pinot Nero - o meglio Blauburgunder - proposti da Gottardi erano caratterizzati in media da un colore diafano, da una palette aromatica non timida nelle note di rovere, e da una notevole delicatezza tannica al palato. La percettibilità dell’élevage, come dicono i francesi, sotto forma di sentori di tostatura e spezie, si attenuava tuttavia con la maturazione del vino in cantina, e di solito i Blauburgunder Gottardi sapevano esprimere nel giro di qualche anno un quadro olfattivo più integrato e armonioso. Profili simili erano ben esemplificati dal 2007, “sussurrato”, sottile, infiltrante, o dal 2009, boisé ma modulato, longilineo, molto persistente. Nel 2010 Bruno Gottardi è andato ai Campi Elisi, lasciando la sua eredità al figlio Alexander, a sua volta scomparso, prematuramente, da poco. La tenuta è ora nelle mani di Lisa, sua figlia. “Mio nonno e mio padre hanno sempre attribuito grande importanza alla lavorazione delicata delle uve e al lavoro sostenibile in vigna. afferma Lisa con legittimo orgoglio. La domanda più ovvia, e anche la più significativa, è se con la nuova gestione cambieranno i metodi di produzione e in definitiva anche lo stile dei vini. In cantina lavoriamo esclusivamente con la forza di gravità, mentre in vigna la lavorazione meno invasiva possibile delle viti è fondamentale per rispecchiare il più autenticamente possibile nei vini lo speciale terroir e microclima di Mazzon. ‘Il vino parla da solo’ è sempre stato il nostro motto”, “Amo il Pinot Nero come è stato vinificato da mio nonno e da mio padre. . Il 2018, per citare un millesimo recente, unisce a una notevole gentilezza tannica uno sviluppo dei profumi molto fine e modulato. Non intendo cambiare lo stile del vino, ma i rossi a partire dall’annata 2022 porteranno ovviamente la mia firma. I miei antenati erano uomini, io sono una giovane donna e credo che questo si rifletterà anche nei vini” Un’altra giovane produttrice lavora vigne sulla stessa collina, Michela Carlotto. Insieme al padre Ferruccio, Michela offre da oltre un ventennio dei Pinot Nero ben disegnati sia nello spettro olfattivo che nell’espressione gustativa. La famiglia Carlotto gestisce circa sei ettari vitati sulla collina, dei quali quattro a pinot nero. Alcune delle loro parcelle sono prossime alle proprietà di Gottardi: le più vicine sono sostanza confinanti, distando solo una ventina di metri tra loro. La storia familiare è ben radicata a Mazzon. Il primo a occuparsi di viticoltura è stato il nonno di Michela, Umberto, che negli anni Quaranta del secolo scorso lavorava come mezzadro presso la tenuta locale Schlosshof. I primi imbottigliamenti autonomi sono del 2001. Nel giro di poche vendemmie i Pinot Nero Carlotto si sono distinti per nitidezza aromatica e intensità del gusto. Nel 2008 scrivevo a proposito della magnifica annata 2005: . Michela, com’è naturale che sia, non ama il rimasticato confronto con l’illustre territorio borgognone. . “Avvolgente, maturo, bel tatto, delicato, con una densità interna sconosciuta alla maggior parte dei Pinot Nero italici. Si pone al vertice della tipologia in Alto Adige, (e quindi senza difficoltà in Italia tout court)” “Certo, l’ascendenza è quella, è innegabile. Ma esistono significative differenze pedoclimatiche, che portano a equilibri diversi nelle uve in vendemmia: acidità totali in media diverse, pH diversi, gradazioni alcoliche potenziali diverse. E quindi, per forza di cose, il vino che otteniamo dalla collina di Mazzon è diverso. Se proprio dovessi generalizzare, con tutti i limiti di una generalizzazione, direi che di solito i Pinot Nero di qui sono più teneri, meno severi di alcune espressioni borgognone” Degustato accanto al suo “fratello” firmato Gottardi, il 2018 Carlotto è perfettamente in linea sul piano della qualità nell’estrazione e del quadro aromatico. Appare solo un po’ più tannico a centro bocca, ma si tratta di tannini di ottima grana. Il finale, per entrambi i rossi, è di notevole progressione e precisione. Presente da almeno un secolo e mezzo a Mazzon, il pinot nero trova qui un ambiente particolarmente ben disposto a gestire il suo temperamento altrove quasi intrattabile.