Un tempo nemmeno tanto remoto il pinot nero era un vitigno come tutti gli altri. Della composita famiglia dei pinot la varietà più citata dai bevitori era semmai il pinot grigio, dominatore dei mercati esteri (soprattutto americani). D’accordo, citata forse non proprio dai bevitori più smaliziati. Ma quello ero lo stato dell’arte.
Poi, grosso modo una ventina d’anni fa, la fama dell’uva pinot nero è cresciuta esponenzialmente. Fino a farla uscire dalla normale tassonomia ampelografica per riassorbirla in un’altra categoria, quella dei modelli simbolici assoluti, indicatori di una qualità infallibile. Qua e là con una sfumatura di snobismo: il cachemire (“io non sopporto la lana, posso mettere solo il cachemire”), gli orologi Rolex, le Bentley, e simili. L’associazione analogica con oggetti di lusso – diciamo pure piuttosto ostentati e modaioli – non è casuale: prodotto rurale per i vignaioli, base di vini leggendari per gli enofili, “oggetto culturale complesso” per i critici enologici più rompiscatole (tra i quali il sottoscritto), il Pinot Nero è oggi un valore per così dire transvinico: tutti o quasi sanno che per fare bella figura al ristorante si va sul sicuro ordinando un Pinot Nero.
La responsabilità maggiore va ovviamente ascritta alla Borgogna, luogo iconico par excellence, ma restando in ambito italiano non ci sono dubbi che il centro più noto per l’allevamento e la vinificazione dell’idiosincratico vitigno sia l’Alto Adige, dove vigne di pinot nero punteggiano il territorio con una notevole frequenza.
La collina di Mazzon, una ventina di chilometri a sud di Bolzano, è tuttavia il vero cuore della produzione regionale.