Rifermento rurale. Massimo Zanichelli C’era una volta il vino del contadino. Era casalingo, sincero, spontaneo, non esente da difetti tecnici, in talune annate di bontà assoluta: veniva come veniva, non aveva ambizioni, era un alimento che serviva per il fabbisogno quotidiano. Si beveva vino anche mentre si faticava nei campi, perché l’acqua notoriamente “rovina i ponti”. Era un vino semplice, brioso, di bassa gradazione alcolica, con qualche zucchero residuo che lo addolciva, frutto di fermentazioni empiriche. Oggi che il termine contadino è stato riscattato – ha sempre abitato i gradini più bassi della scala sociale (fare vino significava lavorare la terra, un mestiere umile, aggravato dal fatto di avere una stalla con del bestiame) –, quel vino sopravvive in forme più compiute nelle mani del vignaiolo moderno, che non ha dimenticato la tradizione dei propri avi, ma che nel frattempo ha portato con se con sé quel riscatto personale (oggi essere vignaiolo significa avere notorietà, prestigio, benessere) che il contadino di un tempo non osava nemmeno sognare. Era un vino di “rifermento” perché, dopo l’imbottigliamento, che avveniva durante i primi tepori primaverili, si muoveva, si “risvegliava” dalla letargia invernale (il freddo lo rendeva docile, tranquillo), innescando i propri fermenti interni, che non erano stati ripuliti, filtrati o stabilizzati dopo la prima fermentazione, e producendo una carbonica spontanea che lo rendeva vivo. Era un vino effervescente, anzi un rifermentato in bottiglia. Oggi sono in molti a chiamarlo “vino naturale” – punto di rottura e rivoluzione dell’enologia del nuovo millennio, espressione arbitraria e controversa entrata nell’uso quotidiano, slogan di successo dalle mille ramificazioni – ma la sua natura genuina, eclettica e atavica sfugge a categorie sommarie. Due metodi, due nature Vini frizzanti, dunque, non spumanti. La distinzione è fondamentale, e non sempre compresa. Le cinetiche delle due differenti pressioni atmosferiche interne (una media di 2,5/3 bar per i primi, una media di 6 bar per i secondi: ecco perché c’è il tappo a corona o raso in sughero per il frizzante e quello a fungo con gabbietta per lo spumante) produce conseguenze sul gusto: la natura e l’energia dell’effervescenza hanno incidenze sulla percezione tattile e aromatica. La diversità tra i due vini è anche nel . Il frizzante, come peraltro lo spumante, può essere prodotto con una (un contenitore di controllo – su alcuni parametri fondamentali come la fermentazione o il dosaggio zuccherino – di alcune decine di ettolitri di capacità) (un contenitore dove che non arriva al litro di contenuto). Ancora una volta la distinzione è radicale: nel primo caso (Martinotti/Charmat) si ottiene un rifermentato dal perlage piuttosto grossolano, nel secondo viene generato un rifermentato dalla bollicina più fine, la quale comporta profumi più complessi e un palato più articolato in termini di sapore e sfumature gustative. metodo rifermentazione in autoclave permette di agire o in bottiglia non si può intervenire Di più: la rifermentazione in bottiglia del frizzante differisce sensibilmente da quella dello spumante. Denominata , quest’ultima prevede una serie di passaggi codificati di elaborazione e controllo (remuage, dégorgement, dosage) che sono invece assenti nella prima, chiamata in vario modo in assenza di un protocollo ufficiale di produzione (“col fondo”, “sur lie”, “sui lieviti”, “ancestrale”, “integrale”, “radicale”, “fermentato naturalmente in bottiglia” ecc.). La “sboccatura”, effettuata al momento della stappatura, può – e dovrebbe – avvenire a distanza di anni dalla vendemmia d’origine: a differenza di quello in autoclave, il rifermentato in bottiglia possiede una longevità insospettata. metodo classico Esiste per il rifermentato in bottiglia anche un metodo ancestrale, analogamente non disciplinato da nessuna normativa o protocollo, dunque elastico nelle sue applicazioni come nelle accezioni d’uso, ulteriore voce e variazione del “ ”. Riferendosi alla méthode ancestrale francese (quella, per intendersi, della Blanquette de Limoux Méthode Ancestrale, del Gaillac Mousseux Méthode Gaillaçoise o del Clairette de Die Méthode Dioise), che è una specie di spumantistica più umile e rurale rispetto alla méthode champenoise, possiamo considerare l’“ancestrale italiano” nella sua forma più pura un vino effervescente (dunque anche frizzante) che termina la presa di spuma in bottiglia durante la prima fermentazione. Tecnicamente non è dunque un “ri-fermentato”: in bottiglia non avviene la seconda fermentazione ma il completamento della prima. metodo familiare Diversità ed espressione Negli anni successivi al boom economico l’autoclave ha rappresentato per molti l’emancipazione da un’enologia rudimentale a una più tecnica: i vini erano più puliti, più stabili, più contemporanei. Era il riscatto del mondo contadino, che finalmente faceva il suo ingresso nella modernità. Nel tempo, però, l’uso eccessivo, sterilizzante di questo strumento ad opera di una produzione sempre più seriale e industrializzata ha sottratto a questi vini l’impronta rurale, lo stile anarchico, le spontaneità del suo carattere più primigenio, soffocandone la personalità in uno stile neutro sempre più “mainstream”. Il frizzante da autoclave, sia esso bianco o rosso, è un vino tirato a lucido, levigato, omogeneo, immediato: tecnico, orizzontale, morbido, rassicurante. Il frizzante fermentato in bottiglia ne è invece l’antitesi: il colore è più intenso e l’aspetto più velato (una prerogativa, non un difetto) per la permanenza del proprio sedimento naturale; la carbonica è più crepitante, più avvolgente, più fine; il sorso dotato di maggiore profondità, ampiezza, persistenza; il tratto dinamico, vivo, rigorosamente secco. Sono vini che restituiscono il fascino dell’irregolarità, dell’eccentricità, dell’imperfezione. È la bellezza dell’asimmetria, l’ebbrezza del mutamento, la poesia del divenire. Sono vini senza scorciatoie che riducono, abbattono la distanza tra vigna e cantina, tra uva e vino: il grado quasi zero dell’interventismo. Si raccolgono le uve più sane e mature, le uniche che possano sostenere una trasformazione così frontale, radicale, senza controlli, correzioni o ritocchi. Vengono pigiate, il mosto fatto fermentare, trasformato in vino e fatto riposare nei mesi freddi, poi imbottigliato durante i primi tepori primaverili, quando la natura si risveglia e riprende vigore. La rifermentazione, aiutata con eventuale innesco di lieviti e/o mosto dello stesso vino, si svolge e dipana in modo non-lineare: i vini della stessa annata hanno spesso sfumature differenti perché ogni bottiglia ha uno sviluppo proprio, una propria individualità. Nasce così il più grande vino popolare del nostro tempo: lo è per tradizione, vocazione, personalità, versatilità. Moderatamente alcolico, longevo ed economico. Digeribile, corroborante, gustoso, invitante. . Genuino Passato e presente Fino a poco tempo fa, cioè fino alle fine degli anni Zero, il vino “con il fondo” – velato, scapigliato, inadatto a presenziare alla grande festa del progresso – non lo voleva più nessuno. Non i ristoratori, che facevano fatica a spiegarlo e gestirlo, non il pubblico che si rifiutava persino di capirlo. Sarebbe probabilmente scomparso dalla circolazione se non fosse stato per l’opera di strenua resilienza di alcuni intemerati e imperterriti vignaioli, i quali – contro un sistema che li tacciava di arcaismo – hanno continuato a produrlo. I loro nomi sono presto detti: Loris Follador di Casa Coste Piane a Santo Stefano di Valdobbiadene; Vittorio Graziano dalla collina di Castelvetro di Modena; Camillo Donati dai colli parmensi di Felino; Massimiliano Croci, il più giovane del gruppo (è del 1980), da quelli piacentini di Castell’Arquato. E Lino Maga, l’indimenticato Maga Lino di Broni, in Oltrepò Pavese. Classe 1931, il padre del Barbacarlo se n’è andato il 1° gennaio del 2022. Un vino, il suo, che non assomigliava a nessun altro, e che Lino si rifiutava di definire “rifermentato” perché la briosa, vitale carbonica non era indotta e si muoveva come voleva. Cinque personaggi che hanno salvato i loro vini dall’estinzione, mappandone la geografia storica: il Prosecco colfóndo tra Valdobbiadene e Conegliano, il mondo del Lambrusco modenese e il resto dell’Emilia tra Malvasia, Ortrugo e Gutturnio, fino all’Oltrepò Pavese della Croatina e della Barbera. C’è anche un sesto personaggio, balzato agli onori della cronaca e del merito negli ultimi lustri: Vincenzo Venturelli, detto “il prof” perché insegnava matematica alla Superiori. Produce in un casolare non lontano da Modena bottiglie senza nome e senza etichetta di mirabili versioni di e , l’unico Lambrusco che lui contempli, un Lambrusco così diverso da quello di Castelvetro: di colore rosa anziché rosso, dai profumi di fragoline di bosco anziché di ciliegia, dai sentori minerali anziché fruttati, dal palato teso e nervoso, dove il tannino è una nuvola. Agli antipodi è invece il Grasparossa, di cui è alfiere Vittorio Graziano e capostipite il suo , che è una sinfonia di lambruschi: oltre al Grasparossa figurano, in percentuali minori, Maestri, Fiorano, Benetti più altri vitigni ancora da identificare. Trebbiano di Spagna Lambrusco di Sorbara Fontana dei Boschi Carattere frondoso e ferroso, floreale e selvatico, succoso e naturale, dal profilo tannico vigoroso e penetrante. Insieme a quelli prodotti da Alberto Paltrinieri a Sorbara (Radice), Claudio Plessi a Castelnuovo Rangone ( , ) e Gianluca Bergianti, il più talentuoso della nuova generazione ( , ), con Terre Vive a Carpi, queste versioni di Lambrusco restituiscono l’anima più verace e selvatica di un vitigno la cui origine si perde nella notte dei tempi della e che l’uso sconsiderato dell’autoclave ha normalizzato a tal punto da trasformarlo in un prodotto piacione e addomesticato, senza più quell’anima nobilmente rustica e irriducibile che lo ha sempre contraddistinto. Tiepido Lambruscaun San Vincent Perfranco vitis vinifera sylvestris Alla domanda “Da quanto tempo produci il colfóndo?”, Loris Follador - spirito autodidatta e anarchico, amabile e poliedrico conversatore, produttore di vini che hanno aperto la via come il - risponde sempre allo stesso modo: “Non ho mai smesso”. Non potrebbe esserci frase più icastica per definire l’identità di un vignaiolo con la tradizione storica della propria famiglia e del proprio territorio. La “nouvelle vague” dei “colfondisti” di Valdobbiadene - Christian Zanatta di Ca’ dei Zago con il , Martino Tormena di Mongarda con il Col Fondo, Andrea Miotto con il ProFondo, senza dimenticare l’asolano ColFóndo firmato da Luca Ferraro di Bele Casel - gli deve molto. Merita una menzione a parte il progetto della Malga Ribelle di Vitale Girardi sulle colline di Farra di Soligo: un virtuoso, perfino utopisti co, modello di azienda agricola a sistema chiuso (senza la necessità di acquistare prodotti esterni per il proprio mantenimento) e autosufficiente (ciclo completo), ovvero integrato, che attualizza i modelli di sostenibilità propugnati da un agronomo visionario antesignano del biologico come Alfonso Draghetti nel secondo dopoguerra: stalla e vacche per la produzione del formaggio, campi per il foraggio e vigneti per il Valdobbiadene Frizzante rifermentazione in bottiglia. Valdobbiadene Prosecco Frizzante... Naturalmente Valdobbiadene Frizzante a rifermentazione spontanea in bottiglia Nasce così il più grande vino popolare del nostro tempo: lo è per tradizione, vocazione, personalità, versatilità. Moderatamente alcolico, longevo ed economico. Digeribile, corroborante, gustoso, invitante. . Genuino Il Colfóndo è un vino senza cromatismi: gioca molto sui contrasti e sui chiaroscuri, è contrappuntistico invece che sinfonico, ricorda gli staccati di un clavicembalo anziché i legati di un pianoforte, sembra realizzato in punta di bulino, non con una pennellata di colore a olio. È succoso, crepitante, d’irresistibile sapore e freschezza. Camillo Donati, vignaiolo-contadino, produttore radicale che, come tutti i pionieri, non si accontenta dei compromessi, ha rilanciato sulle colline di Parma i vini classici del suo territorio, tutti rifermentati in bottiglia: Il Mio Malvasia a base di malvasia di Candia aromatica (“Portata qui dai Romani duemila anni fa”), Il Mio Barbera (“Una varietà che vive qui da un millennio e da noi si è sempre bevuta dopo tre anni”), Il Mio Lambrusco a base di Maestri (“Risale ai primi del Novecento”) e pure Il Mio Sauvignon (“Un’uva che dimora nelle nostre terre da duecento anni e che per tradizione l’abbiamo sempre vinificata frizzante”). Il suo erede è Marco Rizzardi di Crocizia: Znèstra (malvasia di Candia aromatica), Otòbbor (barbera) e Marc’Aurelio (lambrusco Maestri) sono vini compiuti e personali. Massimiliano Croci ha portato a compimento la trasfigurazione dell’ortrugo con il Lubigo (“La sua vocazione è la fermentazione spontanea: l’autoclave con i suoi mille passaggi lo snatura”) ed è venuto a capo sia del Monterosso (malvasia di Candia aromatica più ortrugo e trebbiano) con il Campedello (“In campagna era il vino della merenda del mattino”) sia del Gutturnio (60% barbera, 40% bonarda), il vino simbolo del Piacentino. Ne seguono il tracciato Ludovica Lusenti con la figlia Martina, che hanno portato a vertici d’espressione le rifermentazioni della Malvasia Emiliana (“Mi ricorda quella che una volta si beveva nelle scodelle delle osterie” racconta Ludovica) e dell’Ortrugo Cianô (“In dialetto significa ‘tesoro’: mia madre chiamava così mio padre, abbracciandolo quando tornava a casa stanco dal lavoro”). E l’eredità di Lino Maga? Al di là del figlio Giuseppe che ne continua l’opera, l’ha raccolta Andrea Picchioni: il suo rifermentato Da Cima a Fondo (croatina e uva rara) esprime tutta la suadenza e la gagliardia dei rossi di Canneto Pavese. Guardati ancora oggi con sufficienza dalla critica di settore come dall’enofilo snob, questi vini – fino a ieri nascosti nei sottoscala, precipitati in un cono d’ombra, a rischio di estinzione e oggi fenomeno alla moda, prodotti a tutte le latitudini italiche con ogni tipo di vitigno – rappresentano più di chiunque altro lo spirito rustico, spontaneo, vibrante di una secolare tradizione rurale. Sono i grandi vini quotidiani di un’enologia antica, autoctona, emozionante. L’effervescenza è il loro respiro.