Social dinner.
Valerio Massimo Visintin

Dovremmo ammettere, prima o poi, che qualcosa non ha funzionato nella costruzione del villaggio globale. Abbiamo perduto il senso delle distanze nelle trame ininterrotte delle nostre connessioni con il mondo intero. Chiusi nell’eremo virtuale dei telefonetti, interagiamo con realtà di spazi indefiniti, trascurando chi ci sta di fronte.

Per uscire da questo isolamento e rientrare nel consesso civile, non resta che darsi appuntamento ai tavoli di un bar, di un’enoteca o di un ristorante. Perché il modello unico della socializzazione contemporanea è limitato a due azioni: bere e mangiare. Pazienza.

Nascono così, i social dinner, altrimenti detti social eating. Cene tra sconosciuti, che bramano di conoscere qualcuno.

Siccome appartengo alla generazione della carta e degli amici in carne e ossa, mi sono dovuto documentare su questo fenomeno in lenta, ma costante espansione.

In genere, si tratta di eventi pubblicizzati sottovoce. Fanno riferimento a piattaforme di prenotazione online. E trovano un più consistente seguito nelle grandi città. A cominciare da Milano, epicentro delle solitudini urbane.

Da quel che ho dedotto, le formule sono sostanzialmente tre. Le etichette che le individuano, invece, sono state elaborate da un trust di scienziati riuniti a congresso nel Nebraska.