Olivicoltura eroica. Luigi Caricato L’olivicoltura italiana è fatta di persone, prima ancora che di territori e alberi da coltivare. Senza l’impegno eroico di alcuni agricoltori non esisterebbe il paesaggio così come lo conosciamo. Si pensi alla Liguria, ai tanti oliveti terrazzati. Il poeta Giovanni Boine li aveva associati a una cattedrale, assegnando loro un valore non soltanto simbolico e identitario, ma anche spirituale. L’olivicoltore diventa così il sacerdote che attraverso il proprio lavoro celebra quotidianamente il rito con cui rinnova il forte e invisibile legame tra terreno e ultraterreno. Sono chilometri e chilometri di pietre su pietre, un’infinità di muretti a secco che hanno permesso nei secoli di gestire al meglio un suolo dalle pendenze ardue, affrontando un’orografia impervia con la dovuta professionalità e tanta tenacia e determinazione. Sono stato sempre molto colpito dalla Liguria, perché rappresenta un modello esemplare anche per altri territori, altrettanto complessi da gestire. Si pensi al fatto che l’olivicoltura italiana solo per il 22% del totale si svolge in pianura, per la restante parte è suddivisa tra collina (67%) e montagna (11%). È una olivicoltura intrinsecamente marginale, vissuta in chiave periferica, su terreni spesso molto poveri, dove è difficile coltivare altre piante. L’olivo è un albero rustico, si adatta e sopravvive a condizioni di vita quasi impossibili, in lotta soprattutto con il gelo, grande nemico quando sopraggiunge, quasi sempre imbattibile. Eppure, ci sono coltivatori eroi che scommettono la propria vita, le proprie energie, le proprie risorse pur di allevare olivi. Questi, sempre generosi, anche in stagioni climaticamente complicate, restituiscono in qualche modo quanto viene loro dato. Chiamarlo eroismo, non è una forzatura. Ogni anno, a ogni olivagione il servizio di Google Alert informa di tanti incidenti gravi, e perfino mortali, a seguito di inevitabili e rovinose cadute dagli alberi di operatori perlopiù anziani, ma anche di giovani adulti. Eppure, nonostante l’alto tasso di abbandono della coltivazione – perché è un esercizio da un lato antieconomico e insostenibile, dall’altro rischioso e faticoso – c’è chi, comunque, resiste e non si arrende: eroi, appunto. A Olio Officina Festival ho avuto modo di premiare alcuni di loro. Li ho visti salire sul palco in tutta la loro semplicità e in tutto il loro sano orgoglio. Ho anche accolto a testimoniare giovanissimi ventenni, intenti a dedicarsi alla cura degli olivi e del territorio, sperando non siano eccezioni e, soprattutto, che non desistano cedendo allo sconforto. In tutto ciò, c’è da osservare che le Istituzioni nazionali e locali, al di là delle parole di circostanza, non aiutano, complicano semmai le operazioni colturali e di manutenzione del territorio, con i gravami di una assurda burocrazia che chiude e spegne ogni iniziativa. La buona tenuta dei muretti a secco, e dei terrazzamenti, prevede prassi non soltanto onerose, ma farraginose per via di una burocrazia che non concede deroghe: non è previsto l’aiuto volontario, per esempio. Questa situazione è stata giustamente denunciata dagli ideatori del movimento culturale , e . Una lodevolissima iniziativa intenta a lanciare una campagna di valorizzazione a favore di una olivicoltura d’alta quota. Tutto è iniziato nel 2008, ma la prima apparizione pubblica è avvenuta ad Alassio il 29 luglio 2009. In commercio vi è pure un loro olio extra vergine di oliva, frutto del lavoro collettivo di tanti piccolissimi olivicoltori. TreeDream Flavio Lenardon Giuseppe Stagnitto La bottiglia è arrivata perfino sugli scaffali del tempio milanese della gastronomia, da Peck: si chiama “Taggialto”, nomen omen che racchiude l’olivigno “Taggiasca” associato al concetto di “alto”, nel senso di altitudine di coltivazione. Eroi non è una parola eccessiva. La dedizione di chi cura e coltiva olivi in aree impervie è anche un atto sociale e comunitario. Non si protegge soltanto il paesaggio, ma lo si conserva integro senza perderne la bellezza, arginando anche il rischio di disastri idrogeologici. L’eroismo sta tutto nello sfidare l’ambiente di coltivazione, quello poco agevole d’alta quota. L’eroismo sta anche nella complessa gestione di una olivicoltura dagli (inevitabili) alti costi di produzione. Coltivare olivi in luoghi impervi significa non poter meccanizzare le operazioni colturali e incorrere di conseguenza in alti rischi di incidenti. È un contesto che non si potrà cambiare in modo sostanziale. C’è tuttavia una soluzione al grave fenomeno del progressivo abbandono degli oliveti tradizionali collocati in luoghi dalle forti pendenze. Rinnovare l’olivicoltura in pianura, o nelle colline più gentili, rendendola più moderna ed economicamente sostenibile, è la strada giusta per sostenere in maniera indiretta l’olivicoltura eroica, consentendo di trarre benefici indiretti. L’Italia olivicola dovrà tuttavia reagire una buona volta per tutte ponendo un freno agli irrisolti problemi strutturali che la stanno dilaniando. Impiantare più olivi seguendo i canoni di una nuova visione, più moderna e razionale, con impianti ad alta densità, è la strada maestra più efficace. È una soluzione, però, mai praticata, e perfino rifiutata sul piano ideologico, per mere ragioni di pura ignoranza. Il quadro desolante che si presenta ai nostri occhi è rappresentato plasticamente dai 21 milioni di olivi devastati definitivamente dal batterio Xylella fastidiosa, e dai tanti milioni di olivi in stato di progressivo abbandono. Una situazione paradossale, visto che in Italia manca l’olio e si è costretti a dipendere dalle importazioni dall’estero. Nel contempo non si piantano più olivi, perché si ritiene antieconomica la coltivazione. Solo una nuova olivicoltura concepita in una visione alternativa rispetto a quella del passato può consentire un decisivo salto in avanti, potendo così recuperare una coltura ormai in costante arretramento ovunque nel Paese. Per mia natura non amo raccontare scenari negativi, ma non si può certo ignorare la realtà per quella che appare. In compenso l’ottimismo non è un’utopia, vi sono felici eccezioni a opera di meritevoli imprenditori che non demordono. Ne riporto due nomi, rappresentativi, a titolo informativo. , di , ad Alghero, in Sardegna, con il progetto Novolivo ha messo in piedi investimenti per oltre 600 ettari di nuovi oliveti. Pasquale Manca Olio San Giuliano È stato perfino avversato perché si ha paura sempre delle novità: impiantare olivi ad alta densità è considerato un obbrobrio ambientale ed economico: non è così. Lo dimostra anche , di , a Borgo Incoronata, nel Foggiano, protagonista con i suoi 85 ettari di proprietà e i 700 ettari olivetati della cooperativa da lui creata, cento soci in tutto, determinati e convinti. Pietro Leone Oleificio Cericola Il futuro per Manca e Leone è nel progresso e il paesaggio si adegua senza sottrarre bellezza, natura ed economia. Sia Manca sia Leone hanno accolto l’alta densità degli olivi in modo da favorire una olivicoltura efficiente e da reddito. Anche un grande imprenditore del vino, , non rinuncia a una olivicoltura concepita in una nuova chiave di lettura. Il concetto è semplice: si mantiene l’esistente, curandolo, non si cancella la storia, ma si piantano nuovi olivi in vista del futuro, non commettendo l’errore di relegare come al solito la pianta ad areali poveri. Cambiare prospettiva senza sottrarre bellezza e funzionalità al paesaggio. Essendo una pianta rustica, si è pensato all’olivo come a una pianta tappabuchi: la si piantava dove non vi erano altre possibilità di successo per altre colture. Non si pensava di individuare i terreni migliori, le cultivar più adatte e i metodi di allevamento più efficaci ed economicamente vantaggiosi. Attraverso una olivicoltura non più di sussistenza, ma intensiva o super intensiva, è possibile ridare vita all’olivicoltura italiana. Nel contempo, attraverso le risorse derivanti da una olivicoltura moderna e più razionale sarà possibile sostenere finanziariamente quella tradizionale nelle aree più estreme, d’alta quota, redistribuendo le risorse secondo un principio di equità sociale e ambientale. Lamberto Frescobaldi Non c’è da temere: il paesaggio olivicolo, così come qualsiasi paesaggio agrario, è sempre espressione dell’umano. La natura è un puro spazio biotico, mentre il paesaggio è il segno dell’uomo nella natura, ed è il motivo per il quale il paesaggio è destinato sempre a cambiare, in quanto rientra nell’ambito delle attività umane. Il paesaggio nasce soprattutto in funzione di una utilità legata alla sfera della produzione: si coltivano olivi per ricavare olive da cui estrarre olio o trasformarle in olive da tavola deamarizzandole. Il grado di bellezza che deriva da un determinato paesaggio è solo il risultato di un ulteriore passaggio, che è solo di ordine culturale, e che si manifesta quando l’etica del produrre coincide con l’etica che diventa estetica. In qualsiasi modo venga allevato l’olivo, tutto è bellezza e armonia. Quando si crea una perfetta armonizzazione, anche in senso formale, si può godere sia della bellezza del paesaggio, mentre si percorre a piedi un oliveto, sia della perfetta funzionalità nel momento in cui si ottiene il massimo risultato in termini economici. Il paesaggio, in sostanza, muta come muta nel tempo l’uomo e la società in cui egli vive e opera. L’olivo, e di conseguenza il paesaggio che ammiriamo, non fa altro che raccontare quel che in fondo noi siamo. Il paesaggio, prima ancora che manifestazione della natura a opera dell’uomo, è soprattutto visione del nostro specchio interiore. Ci sono coltivatori che scommettono la propria vita e le proprie risorse pur di allevare olivi. Questi, sempre generosi, anche in stagioni complicate, restituiscono in qualche modo quanto viene loro dato. Chiamarlo eroismo, non è una forzatura.