Riscoprire il Lambrusco.
Territori, stili e savoir-faire.

Gabriele Gorelli MW

Per definizione, il consumatore ha la tendenza a limitare al massimo i rischi che la vastità del panorama vitivinicolo italiano rappresenta attraverso un forte attaccamento a una narrativa rassicurante quanto stanca e parziale. Una narrativa che ci racconta di stelle cadenti e protagonisti consolidati che non possono essere detronizzati. In questa versione di eventi pare che il mondo dei vini italiani sia come una discoteca, dove qualcuno possa entrare soltanto se qualcun altro esce. Il racconto ci dice che il nostro Paese sarà pure uno scrigno di tradizione e sapore, ma tra le sue gemme meno celebrate sembra per sempre relegato il Lambrusco. Ma le vere storie non sono né statiche né prevedibili e le stelle cadute spesso non rimangono a terra. Il podio dei vini italiani non ha limiti di accesso e se c’è un vino che merita di essere riscoperto oggi, è proprio il Lambrusco. Con la sua storia plurisecolare, è un simbolo dell’Italia enologica. Originario dell’Emilia, è sempre stato apprezzato per la sua freschezza e vitalità. Le origini risalgono all’antica Roma come testimoniato da Virgilio e Plinio. Si ipotizza che il nome Lambrusco derivi dai termini latini labrum (bordo) e ruscum (pianta spontanea), un cenno alle origini rustiche di questo vitigno.

Nel corso dei secoli, il Lambrusco ha subito diverse evoluzioni, diventando interprete della cultura enogastronomica italiana. Il vino Lambrusco è sempre stato molto amato dai Duchi, tanto è vero che in un suo “olografo” del 1430, Nicolò III d’Este ordina che “di tutto il vino che veniva condotto da Modena a Parigi, la metà del dazio non venisse pagata”, in modo da favorire il commercio. Nel 1814, grazie all’opera di Conte Vincenzo Dandolo, si è codificato il metodo di produrre, imbottigliare e tappare il vino, di vitale importanza per le bollicine e la commercializzazione. L’ampelografi a moderna, sempre nel Novecento, ha identificato i diversi vitigni del Lambrusco e individuato le loro qualità.

Nelle province di Modena e Reggio Emilia sono nate tante cooperative sociali – una delle prime d’Italia a Carpi nel 1903 – strumentali nell’aggregare i viticoltori e i loro sforzi, off rendo appoggio per lo stoccaggio sotterraneo, di vitale importanza in zone paludose. E soprattutto gestendo la produzione stessa, spesso incompatibile con un approccio rudimentale per via di volumi importanti e peculiarità del metodo. Già nel 1930 le cantine sociali del Modenese vinifi cavano oltre 400.000 quintali d’uva. Ricordiamoci che a tutt’oggi il Lambrusco è tra i vini italiani più venduti ed esportati, diff uso in 117 paesi nel mondo.

Dire Lambrusco è solo una convenzione; esistono molte varietà e diversi stili. La parola Lambrusco, nel singolare, confonde e limita. Il Lambrusco non è una cosa sola ma è un mondo che contiene una moltitudine di espressioni. Indica una famiglia di dodici vitigni autoctoni a bacca nera che possono essere vinificati in una miriade di percentuali e stili, lasciando molta autonomia al produttore stesso.

Esistono molteplici tipologie e di Lambrusco sul mercato, dal secco al dolce con uno spettro di colori che va dal rosa tenue al viola impenetrabile.

Tra le varietà più conosciute ci sono il Lambrusco di Sorbara, il Lambrusco Salamino e il Lambrusco Grasparossa, ognuno con il suo carattere unico. Il Lambrusco di Sorbara DOC esprime vibrante leggerezza e delicate note di frutti rossi croccanti. Fragrante, floreale ed elegante con un’acidità e freschezza inconfondibili. Il Lambrusco Salamino di Santa Croce DOC offre un profilo più robusto e denso con un carattere di ciliegia e viola. Il Lambrusco Grasparossa di Castelvetro DOC presenta una struttura piacevolmente tannica, è brillante e audace. Queste variazioni offrono infinite possibilità di esplorazione gustativa. Tutte sono capaci di dare vita a vini freschi e piacevoli indipendentemente dal fatto che nascano con metodo classico, charmat o addirittura metodo ancestrale (Pet Nat – “pétillant naturel”).