Assaggi di paesaggi. Morello Pecchioli Si viaggia per mangiare bene e per bere meglio, con piacere e consapevolezza. Lo hanno fatto – o lo stanno per fare – dieci milioni di italiani nel 2023 motivati principalmente dall’interesse enogastronomico. La stima dei turisti di casa nostra che fanno le valigie e accendono i motori solo dopo aver deciso in quale città o regione andare ad esplorare i giacimenti locali del gusto è nel Rapporto sul turismo enogastronomico italiano 2023 presentato da Roberta Garibaldi, docente di Economia e gestione delle imprese turistiche all’Università di Bergamo, in giugno alla stampa nel palazzo del Touring Club a Milano. Stando al Rapporto, le regioni più gettonate dagli enogastronauti italiani sono Sicilia, Emilia-Romagna e Campania, mentre le città dove i buongustai con guida sottobraccio si mettono più volentieri a tavola sono Napoli, Bologna e Roma. Lo studio si occupa anche dei viaggiatori gourmet stranieri, stimando che alla fine di quest’anno saranno cinque milioni e mezzo gli europei che percorreranno le strade del Bel Paese con lo scopo primario di soddisfare la fame e la sete di cultura e di bellezze italiche, ma appagando nello stesso tempo la fame e la sete di cibi e vini rigorosamente Made in Italy. Città d’arte, mare e montagna vanno bene, ma solo se mostre, collezioni, bagni ed escursioni sono coniugate con esperienze culinarie altrettanto valide, appaganti. Grazie a Garibaldi, quindi, è statisticamente provato: si viaggia per mangiare e ogni luogo della Penisola è degno di essere visitato, ammirato, conosciuto e assaporato. Occhi, gola e mente. Google Maps serve anche, e molto spesso “soprattutto”, per indicare i filoni d’oro della dieta mediterranea. Strade, paesaggi, arte, mare e monti, colli, città… Tutto bello, tutto incantevole, ma se nell’itinerario non viene inserito l’indirizzo di una voluttuosa trattoria dove fermarsi per godere i cibi tipici e i buoni piatti della tradizione locale o l’ubicazione di una cantina dove degustare i vini, magari autoctoni e semisconosciuti, del luogo, è un itinerario zoppo. Non conclusus. Se nei paesaggi del gusto non viene aggiunto un Mulino Bianco o una Dop, una Igp o una Specialità tradizionale garantita (Stg) quale piacere se ne ricava? Gli occhi vogliono la loro parte, che viene loro data volentieri, ma vogliamo lasciare il palato a bocca asciutta? Non si può capire il genius loci, l’anima di ogni particolare zona del Bel Paese, se lo si mutila di una parte fondamentale qual è la cucina del territorio. Scrive Eugenio Montale in Satura: “Il genio purtroppo non parla per bocca sua, il genio lascia qualche traccia di zampetta come la lepre sulla neve”. Tracce di zampette enogastronomiche si trovano in ogni macro o microregione dell’italico stivale: dietro a un promontorio, in fondo a una insenatura, tra i paesini di una vallata dolomitica o nei borghi sulle rive di un fiume, nei mercati rionali o in quelli contadini, nei banchetti di street food a San Gregorio Armeno a Napoli o in quelli di Ballarò o della Vucciria di Palermo: li pani ca’ meusa o le stigghiole lasciano tracce indelebili. Cosa sarebbe Firenze senza la fiorentina con l’osso? La Romagna senza piadina? Alba senza il tartufo bianco somiglierebbe a un triste tramonto. L’Alto Adige senza speck, canederli e pretzel non sarebbe, poi, così alto. E passare per Genova senza perdersi nel verde di un piatto di trofie al pesto sarebbe come passare per la tundra artica brucando licheni come una renna siberiana. Proprio Genova ha generato il poeta e cantore del cibo e della terra, il profeta della cima alla genovese, delle acciughe fritte, della farinata e del paesaggio urbano tradotti in splendide canzoni: Fabrizio De Andrè. “E a ‘ste panse veue cose che daià / cose da beive, cose da mangiä / frittûa de pigneu giancu de Purtufin / çervelle de bae ‘nt’u meximu vin / lasagne da fiddià ai quattru tucchi / paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi”. È il menu dell’osteria – la casa di pietra – dell’Andrea, oste furbo e un po’ brigante, che alle pance vuote dei marinai (umbre de muri muri de mainé) offre in pasto frittura di pesciolini, bianco di Portofino, cervelle di agnello nello stesso vino, lasagne da tagliare ai quattro sughi, pasticcio in agrodolce di lepre dei coppi. Questo il cibo di Andrea che, il poeta cantante fa capire, cucina il gatto (la lepre dei coppi) e lo spaccia per coniglio. Il contorno geografico? Il paesaggio? È la popolare, affascinante Genova stretta tra monte e mare che scende al porto con una crêuza de mä, la mulattiera selciata di sassi e illuminata dalla luna nua, nuda, con una fontana di colombi davanti alla casa di pietra e soprattutto con le cantilene dei venditori di pesce al mercato ittico, ahimè oggi scomparso, di piazza Cavour: Pino il muscolaio e Caterina che invita la gente a comperare i suoi i bianchetti. Matilde Serao, giornalista e scrittrice napoletana, talmente innamorata della sua città da giustificare anche gli aspetti, i quartieri più miserevoli e le sue contraddizioni, è un’altra amante del paesaggio urbano accordato col cibo. Proprio come De Andrè la Serao ama e difende dai propositi di distruzione (Il ventre di Napoli, 1884) la città che giace ai piedi del Vesuvio e la pizza, i quartieri spagnoli e gli spaghetti con la pommarola. Imitata in questo amore dalle migliaia di turisti che scelgono Napoli e la Campania per i piaceri del gusto che offrono. “Attraverso la potente lente dell’alimentazione”, scrive Dora Marchese nel saggio Paesaggi e scenari gastronomico-alimentari nell’opera di Matilde Serao, “la scrittrice affresca veri e propri paesaggi culturali, antropologici e sociali, tracciati dal suo pennello ma filtrati dal ricordo, dalle emozioni, dalle percezioni vissute in prima persona. La sfera gastronomico alimentare diviene in questo contesto un’immediata chiave di lettura capace di palesare stati d’animo, rivelare condizioni socioeconomiche, supportare analisi psicologiche e ambientali, in una parola impreziosire e rendere più vero e verosimile il mondo da lei presentato”. Che il cibo vada a braccetto col paesaggio, sia urbano che “naturale”, non è una scoperta recente e non è dovuta al turismo enogastronomico che deve essere gestito, ma ha comunque il merito di aver favorito la nascita delle strade del vino, dei circuiti gastronomici, delle fiere del gusto, delle visite a caseifici e ad altre realtà agroalimentari. Il buon mangiare, il prodotto tipico, la tradizione della civiltà contadina calamitano turisti. Roberta Garibaldi nel suo Rapporto sostiene che all’Italia occorre un altro salto di qualità in termini di idee, sistema, promozione e commercializzazione, soprattutto quella digitale. Scrive nel suo rapporto che è importante “preservare e valorizzare il patrimonio culinario italiano, i paesaggi, le piccole botteghe e gli artigiani del gusto, per garantire una crescita costante nel lungo periodo, armoniosa ed equilibrata nel rapporto tra mete più rinomate e le meno note aree interne. Il turismo enogastronomico riduce gli squilibri, contribuisce a mantenere le attività tradizionali nei piccoli borghi e nelle zone rurali, porta entrate aggiuntive ai produttori, stimolandoli a tutelare attivamente il paesaggio che è tra le principali leve di scelta del turista, ricercando proposte autentiche e sperimentando attività sempre diverse a contatto con la natura”. Ma, è d’obbligo chiedersi, quale paesaggio e quale natura? Moreno Baccichet, architetto ambientalista, scrive su un libro sponsorizzato da Legambiente: “Il cibo produce paesaggio e trasforma la natura e i territori da millenni. L’evoluzione della società contemporanea e, soprattutto, del rapporto tra città e campagna, porta a nuove trasformazioni sul paesaggio, indotte dagli stili di vita, dai modelli comportamentali, dalle abitudini alimentari della popolazione”. E il Touring Club rimarca ne I paesaggi del cibo (2015): “Cibo e paesaggio, prodotti e territorio sono i temi dei quali il Touring si occupa da oltre 100 anni, con la consapevolezza che ormai quasi sempre la buona tavola è incentivo al viaggio, ma insieme deve diventare stimolo a un nuovo modo di fare turismo. Conoscere i paesaggi del grano, del vino e dell’olio, della carne e del latte, della frutta e della verdura, senza dimenticare i molteplici paesaggi del bosco e dell’acqua, consente pertanto di svelare il circuito di relazioni e la condivisione di metodi che da secoli caratterizza la cultura alimentare italiana”. Cibo e paesaggio sono connessi. Talvolta con risultati incantevoli, talaltra con esiti disequilibrati, omologati come le colline del Prosecco nella Marca Trevigiana. Giacomo Leopardi sottolineava l’artificialità del paesaggio in una operetta morale del 1824, l’Elogio agli uccelli. Parlando della “vaghezza dei luoghi”, precisava: “Ora in queste cose, una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziandio non considerando le città, e gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare insieme; è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura”. Ma come potrebbe essere altrimenti? Il paesaggio cresce con l’uomo e l’uomo col cibo. L’importante è la tutela dell’uno e la qualità dell’altro. La produzione di cereali, frutta, verdura, latte, formaggi (basti pensare alle malghe e ai pascoli in montagna, al paesaggio alpino fatto di boschi, masi e sentieri) è una delle principali attività dell’uomo “costruttore” di paesaggi intesi come patrimonio naturale e culturale, in grado di generare benessere e qualità di vita per le genti che vivono nei molteplici ambienti. È questo messaggio che il turista deve percepire: al di là del piatto e del bicchiere che gli stanno regalando piacere, emozioni, cultura c’è il valore aggiunto del paesaggio e degli spazi di vita che devono godere della stessa tutela di qualità del cibo. Paesaggi doc, ambienti umani docg. Il rovescio della medaglia è lo spopolamento delle campagne e della montagna, l’abbandono al bosco di pascoli e terre incolte, l’espansione urbana incontrollata, il turismo di massa inconsapevole, traffico intenso, inquinamento dell’aria e dell’acqua, l’agricoltura. Si salvano i luoghi di vivibilità sostenibile nei quali cibo e paesaggio sono talmente connessi, se entrambi rispettati, che spazi di vita e sapori, territori e odori diventano una sola cosa, un luogo dell’anima legato a memorie, a storie, ad altre vite. Vi basta sentire un odore legato all’infanzia, un profumo che non percepivamo più da tempo che l’emozione ci rimescola dentro. È l’Effetto Madeleine, così chiamato dalla biologa Linda Brown Buck e dal medico Richard Axel, entrambi Nobel per la medicina nel 2004 per le loro ricerche sui recettori olfattivi. A Marcel Proust bastò il profumo del biscotto a forma di conchiglia (madeleine) per scrivere i sette libri di Alla ricerca del tempo perduto. Ma, più modestamente, anche i nostri recettori conoscono l’effetto madeleine e sono sempre pronti a trasmettere al cervello le emozioni e le visioni legate a un profumo, a un odore, un aroma, per farci rivivere ricordi sepolti nel cervello tra l’ippocampo e l’amigdala o per sfogliare cartoline di luoghi e panorami dove, in passato, ci siamo emozionati annusando un odore particolarmente piacevole, rimasto intatto nel tempo nel cuore: può essere l’immagine del cucinino della casa popolare dove la mamma preparava la minestra di pomodori e sedano, oppure la pizzeria al taglio sul molo di Viareggio dietro il bagno Nettuno dove Athos, il pizzaiolo, avvolgeva nella carta oleata le profumatissime fette di pizza margherita grondanti pomodoro e mozzarella, o può essere ancora il forno del Loggetti fuori di Porta Mercatale a Prato: vi si respirava a pieni polmoni il caldo effluvio delle bozze di pan sciocco appena sfornate. Benedetti recettori, maledetta nostalgia.