Il nuovo, vecchio corso del vino in Alsazia. Fabio Rizzari Esiste una regione vinicola in grado di rivaleggiare con la Borgogna quanto a varietà e complessità del proprio terroir? Per quanto possa suonare incredibile ai terrapiattisti e ai negazionisti di ogni colore e taglia, una regione simile esiste: l’Alsazia. Certo, il numero dei lieux-dits della Côte d’Or borgognona è superiore, ma – non contando lo scalino dei Premier Cru, che i disciplinari alsaziani non contemplano – quanto a parcelle insignite del titolo prestigioso di Grand Cru, l’Alsazia ha numeri più alti: una cinquantina contro una trentina. È un paragone improprio sotto vari aspetti, ma serve per un primo orientamento generale. Qui, in una terra contesa per secoli tra la Germania e la Francia, è fiorita una viticoltura di peculiare ricchezza. Una viticoltura che lavora un ampio affresco di cru, non molto meno intricato e impervio da comprendere della nomenclatura borgognona. Anzi, reso ancora più difficile da studiare a causa della proverbiale impronunciabilità delle singole parcelle, pressoché tutte indicate in lingua teutonica. Se mandare a memoria i climats della Côte d’Or è ostico, figurarsi padroneggiare la tassonomia alsaziana, dove le consonanti sono sovrabbondanti e dove viceversa scarseggiano le vocali: al lettore italico i nomi dei cru sembrano inevitabilmente dei codici fiscali. Da questo una certa impermeabilità ai vini del luogo da parte del mercato nazionale, che ha sdoganato negli ultimi decenni solo nomi celebri quali Zind-Humbrecht, Deiss, Hugel, Weinbach, e pochi altri. Con una forte semplificazione si può affermare che il confine fisico che divide la Francia dalla Germania è anche un confine enologico: in terra gallica i vini venivano vinificati tradizionalmente “a secco”. Mentre al di là della frontiera i vini venivano e vengono vinificati (al netto del rimescolamento causato dal cambiamento climatico) lasciando spesso zuccheri residui. A questo schemetto di base, rozzo quanto si vuole, ha fatto eccezione il periodo parkeriano (quello del critico americano Robert Parker), che coincide grosso modo con il ventennio 1990-2010. In questa fase, per seguire la richiesta del mercato globale che cercava rotondità e morbidezza a tutti i costi, molti vini alsaziani hanno assunto una forma burrosa, dolce, allargata. Si sono estese le vinificazioni da vendemmia tardiva (“Vendange Tardive”) e le cosiddette SGN, ovvero i vini dolci da “Sélection de Grains Nobles”, menzioni legali dal 1984. In questa medesima temperie storica molte aziende di considerevoli dimensioni hanno provato a imporre – con qualche successo – un modello produttivo che mettesse tra parentesi il vigneto di origine, rafforzando la vocazione originale della regione, quella di proporre vini da vitigno: Pinot Gris, Pinot Blanc, Riesling, Gewürztraminer, eccetera. Attualmente la situazione ha decisamente virato verso la fase pre-parkeriana. I vini sono in media privi di zuccheri percettibili e ritrovano droiture, slancio, freschezza. Restando, è bene sottolinearlo, vini generosi. Sebbene nordico, il territorio alsaziano gode infatti di un clima piuttosto secco e relativamente caldo grazie al massiccio dei Vosgi, che fa da possente barriera occidentale ai venti e alle piogge. Qui, controintuitivamente rispetto alla latitudine, “les raisins blancs mûrissent mieux que partout ailleurs en France” (“le uve bianche maturano meglio rispetto a qualsiasi altra parte in Francia”), nelle parole di Michel Bettane. Anche in Alsazia il vertice della piramide qualitativa è rappresentato dai Grand Cru, che, come in Borgogna, sono piuttosto rari. Ma, a differenza della Borgogna, non si tratta di vini costosi; se per costoso si intende un vino che ha prezzi da diverse centinaia di euro, e più. Un Grand Cru eccellente come il Pfersigberg di Bruno Schueller, ad esempio, può arrivare a un prezzo di circa 50 euro a bottiglia; non regalato, certo, ma lontano anni luce dalle cifre stellari della maggior parte dei Grand Cru borgognoni. E proprio Bruno Schueller è il primo protagonista di questo racconto. Il domaine – una decina di ettari a Husseren- les-Châteaux, non lontano da Colmar – è tuttora intestato al padre, Gérard, scomparso lo scorso anno. Bruno, classe 1965, è stato tra i primissimi in Alsazia, e penso in Francia tout court, a tentare – a partire dal lontano 1989 – l’impervia strada delle vinificazioni senza solfiti aggiunti. “Ma non mi interessava fare a tutti i costi lo sperimentatore”, rimarca in un italiano perfetto, “è una scelta venuta quasi da sé. Questa terra dà uve dall’equilibrio unico, vini tenaci: è quindi una tecnica che si può adottare, con le dovute precauzioni. L’Alsazia è una terra di confine. Nell’Ottocento, finché è stata francese, rappresentava l’estremo nord, quello dei vini longilinei. Quando è divenuta tedesca, con un’inversione percettiva è passata a rappresentare l’estremo sud del vigneto tedesco, e ha servito da serbatoio di uve che davano più zuccheri e vini quindi più ‘caldi’ e alcolici. Ma il territorio è sempre stato questo e insieme quello: alcuni cru esposti a mezzogiorno danno vini di 14 gradi naturali, e allo stesso tempo hanno un’acidità e una mineralità accesissime”. Un osservatore tecnico giudicherà l’approccio di Schueller nel fare vino fin troppo anarchico: grappoli interi sempre e comunque (che i raspi siano più o meno lignificati), niente solfiti, niente controllo della temperatura, niente travasi e niente filtrazioni finali, nemmeno sgrossanti. Botti in legno vecchie e vecchissime, in alcuni casi pressoché centenarie. Il risultato, tuttavia, è tutto meno che selvaggio e disordinato: sia i bianchi – da pinot bianco, pinot grigio, gewürztraminer e ovviamente riesling – che i rossi da pinot nero sono di solito di una focalizzazione aromatica e di una precisione gustativa sorprendenti. L’azienda immette sul mercato ben una trentina di diverse etichette, com’è del resto comune in Alsazia, dove anche i vignaioli più piccoli propongono sei o sette referenze. Tra queste spiccano i bianchi ottenuti dai due Grand Cru, Pfersigberg ed Eichberg. Il Riesling Pfersigberg “H” 2020, ancora in botte, è un fulmine, e promette meraviglie al bevitore che potrà comprarne qualche bottiglia. Magnifico, poi, il Gewürztraminer Grand Cru Eichberg 2022, che ha assetto vibrante e incisivo, opposto a quello dei Traminer dolciastri troppo comuni fuori della terra alsaziana. Personalmente amo in misura particolare i suoi Pinot Noir. Rossi magari non invitantissimi all’aspetto visivo, che mostra una tinta spesso precocemente autunnale, ma notevoli nella finezza dello spettro dei profumi e nell’articolazione al palato. A pochi chilometri di distanza dalla cantina di Schueller, presso Pfaffenheim, fa vini altrettanto felici Jean-François Ginglinger. Sarei tentato di definirlo un ragazzo, perché da quando ho superato i sessant’anni pressoché tutti i vignaioli sotto i cinquanta mi sembrano ragazzi. Nei fatti Ginglinger è giovane, ma non tanto più giovane di Schueller, avendo già un figlio di ventun anni che si è messo in proprio a vinificare qualche tempo fa. Jean-François opera a grandi linee proprio come Bruno, sia in vigna che in cantina. Il profilo sintetico del domaine parla chiaro: circa sette ettari, quasi tutti sotto la denominazione Grand Cru, lavorati in biologico; nessuna diraspatura, legni grandi e non nuovi, nessun travaso, nessuna filtrazione finale. I vini, nei fatti, sono molto imparentati sul piano stilistico con quelli firmati Schueller: intensità, mineralità (tratto controverso che qui trova un riscontro sensoriale evidente nelle decise note sapide del finale), “acidità matura”, come la definisce il vignaiolo stesso. , puntualizza. . “Per acidità matura intendo una percezione di freschezza non cruda, non tagliente, ma ‘enrobé’, avvolta dalla polpa del frutto” “Qui in Alsazia abbiamo il privilegio di poter trasmettere nei vini due caratteri che spesso non convivono, la pienezza della maturità del frutto e la spinta vivace dell’acidità finale, quella del chicco d’uva ancora croccante, quasi pungente” Ginglinger non si è adagiato nel ripetere un protocollo, per quanto naturale sia; conduce continue sperimentazioni. “Ora sto provando a fare una sorta di tisana, di infusione: metto in un sacco le vinacce del gewürztraminer e le immergo nel mosto di altri bianchi. I risultati sono stimolanti”. Assaggiati dalla botte, i suoi prossimi imbottigliamenti promettono molto. Luminosi, in particolare, il Pinot Noir Steiner Grand Cru 2022, vitale e pieno di succo, e il bianco Bihl, taglio di riesling e sylvaner, della stessa annata. Per quanto molto apprezzati, si tratta di prodotti ancora non aggrediti dalla speculazione internazionale. I prezzi si regolano di conseguenza: non bassissimi, però ancora perfettamente alla portata dell’enofilo attento. Attualmente la situazione ha decisamente virato verso la fase pre-parkeriana. I vini sono in media privi di zuccheri percettibili e ritrovano droiture, slancio, freschezza. Restando, è bene sottolinearlo, vini generosi.