Anche nel mondo del vino, come in quello del pensiero, regna indisturbato il luogo comune, che semina perniciosamente zizzanie e secessioni. Il Gewürztraminer? “Fiacco e noioso”. Il Moscato? “Buono solo a Natale con il panettone”. La Malvasia? “Mi piace solo quella friulana, che è poco aromatica”. Il Brachetto? “Non lo considero nemmeno”. Il Riesling, che pur ha impiegato decenni per farsi finalmente accettare dal gusto italiano, si salva perché paradossalmente non è considerato tale. Eppure, l’aromatico – questa parola sensoriale e squisita – rappresenta un mondo molto più vasto ed eccitante di quanto si voglia accettare o del “guilty pleasure” che si è disposti a concedergli. L’aromatico è singolare perché raro; è riconoscibile, dunque inconfondibile, perché restituisce il senso assoluto dell’uva da cui proviene; è irresistibile, inebriante: un vino dionisiaco capace di staccare la nostra mente dalla gravità per librarla nell’aria della sensorialità e della fantasia.
Dei vitigni sopra citati se ne scelgono qui due – il moscato e la malvasia – poiché accomunati, al di là dell’assonanza fonetica, da un identico destino: essere arrivati dalla Grecia – il regno del baccanale, del gusto orgiastico – o più in generale dal bacino del Mediterraneo per generare vini dolci, passiti e frizzanti, dapprima considerati propiziatori, “divini” – vini di culto – e poi via via trattati alla stregua di paria.
Ma d’ora in poi non varrà più l’alibi del dolce: oggi il bianco aromatico viene sempre più servito secco, in versioni spesso estasianti, di cui si fornisce qui un percorso plurale di geografie e stili.