Il profilo secco dell’aromatico. Massimo Zanichelli Anche nel mondo del vino, come in quello del pensiero, regna indisturbato il luogo comune, che semina perniciosamente zizzanie e secessioni. Il Gewürztraminer? “Fiacco e noioso”. Il Moscato? “Buono solo a Natale con il panettone”. La Malvasia? “Mi piace solo quella friulana, che è poco aromatica”. Il Brachetto? “Non lo considero nemmeno”. Il Riesling, che pur ha impiegato decenni per farsi finalmente accettare dal gusto italiano, si salva perché paradossalmente non è considerato tale. Eppure, l’aromatico – questa parola sensoriale e squisita – rappresenta un mondo molto più vasto ed eccitante di quanto si voglia accettare o del “guilty pleasure” che si è disposti a concedergli. L’aromatico è singolare perché raro; è riconoscibile, dunque inconfondibile, perché restituisce il senso assoluto dell’uva da cui proviene; è irresistibile, inebriante: un vino dionisiaco capace di staccare la nostra mente dalla gravità per librarla nell’aria della sensorialità e della fantasia. Dei vitigni sopra citati se ne scelgono qui due – il moscato e la malvasia – poiché accomunati, al di là dell’assonanza fonetica, da un identico destino: essere arrivati dalla Grecia – il regno del baccanale, del gusto orgiastico – o più in generale dal bacino del Mediterraneo per generare vini dolci, passiti e frizzanti, dapprima considerati propiziatori, “divini” – vini di culto – e poi via via trattati alla stregua di paria. Ma d’ora in poi non varrà più l’alibi del dolce: oggi il bianco aromatico viene sempre più servito secco, in versioni spesso estasianti, di cui si fornisce qui un percorso plurale di geografie e stili. MOSCATO Appartiene a una ramificata famiglia di varietà, distinte anche dal colore: moscato bianco, giallo, rosa, nero. È dubbia, ancorché affascinante, la tesi che derivi dall’uva “apiana” citata da Columella nel libro terzo dell’Arte dell’agricoltura e da Plinio il Vecchio nel quattordicesimo della Storia naturale e che il suo nome sia dovuto al successivo passaggio semantico dall’“ape” alla “mosca”. Più probabile che la parola “moscato” provenga da muscus, “muschio”, sua tipica, spiccata nota organolettica, e che il vitigno derivi dall’Anathelicon moschaton greco, portato nella Penisola dai veneziani durante il periodo delle Crociate. All’interno di questo ampio orizzonte ampelografico, tre sono le varietà qui scelte per la loro maggiore attitudine alle versioni secche: il moscato bianco (diffuso principalmente in Piemonte, ma con areali significativi in tutta Italia, tra cui spiccano la Valle d’Aosta e la Sicilia), il moscato di Alessandria o zibibbo (presente solo nell’isola di Pantelleria) e il moscato giallo, la cui aree di elezione sono il Trentino, l’Alto Adige, dove prende il nome di Goldmuskateller, e i Colli Euganei, dove viene chiamato Fior d’Arancio. Chambave A Chambave, una manciata di comuni alle porte di Aosta, il muscat à petits grains, equivalente del moscato bianco di Canelli, è presente da secoli e i circa 15 ettari beneficiano di suoli sabbiosi e climi montani. La Crotta di Vegneron, cantina cooperativa saldamente nelle mani del piemontese Andrea Costa, produce dal 1985 uno Chambave Muscat di precisione varietale cui non sfugge un 2022 di aromaticità in filodiffusione (muschio, glicine, fiori di sambuco, nocciolo di pesca) in attesa del Dolby Surround (gli agrumi, lo zenzero) che arriverà con il tempo. Sul tempo poggia le sue fondamenta lo Chambave Muscat Attente che da qualche anno ha accorciato la permanenza “sur lies” e introdotto la botte (12 mesi in botti di rovere di Slavonia e Transilvania): il 2020 aspetta l’avvento delle foglie autunnali e si pasce della fragranza esotica di un legno calibrato. Una ventina di anni fa l’ex marinaio Hervé Deguillame ha trovato l’attracco della propria vita a La Vrille, sui rilievi natii di Verrayes, ed è stato il primo a introdurre sul mercato lo Chambave Muscat di un vigneron. Combina l’eleganza dell’apporto aromatico (il muschio, il biancospino, la rosa bianca) con la pienezza della polpa e con lo spessore alcolico senza mai turbarne la compattezza, come nel 2022, nel 2021 e in un 2020 che ha costretto Hervé ad appassire le uve e fare macerazione senza che questo abbia minato l’equilibrio del vino. Tra Langa e Astigiano Insieme a Mango e Castiglione Tinella, Santo Stefano Belbo delimita le ultime colline della Langa prima dell’ingresso nell’Astigiano ed è uno dei principali crocevia del moscato piemontese. Interprete tra i più ispirati ed eclettici, Riccardo Bianco della cantina Mongioia ne produce una versione secca chiamata Leonhard che è sintesi di carattere territoriale e sperimentazione tecnologica: il 2021 è uno spiazzante raggio laser dal colore trasparente che mira alla sapidità assoluta, al grado zero del moto aromatico; il 2020 fa affiorare le prime erbe, i primi agrumi; il 2017 deflagra in un bouquet di erbe officinali, muschi sublimati, foglia di tè, albicocca; il 2016 è una cometa di salvia, orto, menta, calendula; il 2012, prima annata prodotta, fa esplodere una rinfrescante carica aromatica e una corroborante caramella balsamica che sublimano l’amaricante. Sotto l’egida di Camo, una frazione di Santo Stefano Belbo, si sono recentemente radunati un gruppo di giovani vignaioli in un’“associazione aromatica” chiamata “EsCAMOtage”. Il progetto è lodevole (si è dotata di un disciplinare, il primo nel suo genere, che vieta il diserbo chimico ed esplicita un dissenso contro l’incapacità di trovare uno status giuridico al Moscato secco all’interno dell’imperio dell’Asti), lo stile dei vini attualmente eterogeneo (ora aromatico, ora neutro, ora alcolico, ora ossidativo). Il Mosca Bianca Limited Edition 2020 di Guido Vada da Coazzolo, capofila del gruppo, pratica la via della macerazione e del bâtonnage in tonneau: il colore del vino è giallo grano, l’olfatto è personale e intrigante, il palato di moderata aromaticità e tannino integrato. Nel Temperss 2019 di Domenico Amerio della Tenuta il Nespolo (siamo a Moasca, nell’Astigiano) si respira per contro quasi un carattere isolano per l’effluvio di erbe aromatiche e officinali, di balsami ed eucalipto, mentre tutta piemontese è la permanenza alcolico-sapida del finale. A Canelli, nell’area più “mainstream” del Moscato regionale, Alessandra e Gianluigi Bera della cantina Vittorio Bera e Figli (i figli sono loro due) interpretano in chiave eterodossa il vitigno principe della loro terra. Il Baravantan (in piemontese “bizzarro”, “strano”) del 2019 ha umori agresti e rurali misti a una corrente balsamica, un palato di vibrazioni e fermenti (c’è lieve frizzo da rifermentazione che conferisce brio e turgore). Dopo due anni di fermentazione spontanea e ben dieci trascorsi “sottovela” in una vasca di cemento, il Bianchdusèt 2007 radicalizza la metamorfosi: colore dorato-grano dai riflessi aranciati, profumi di quintessenza balsamica con fervori mentolati, accensioni di propoli, un tripudio di erbe aromatiche, officinali e medicinali (mirto, rosmarino, timo, genziana, menta, china calissaia, rabarbaro). Sorso succoso, intenso, incessante. Euforia e trasmutazione. Sicilia sud-occidentale Uno stacco in verticale e siamo nel Siracusano, territorio di millenaria tradizione vitivinicola. Pare che il suo moscato bianco sia il diretto discendente del Pollio di Siracusa, uno dei vini più antichi d’Italia, prodotto con l’uva Biblia introdotta dal tiranno tracio Pollis (da cui il nome del vino) durante i primi insediamenti greci dell’isola. La famiglia Pupillo, che vanta con il Feudo della Targia un legame secolare, ha piantato alla fine degli anni Ottanta il moscato bianco, da cui Carmela e Sebastiano traggono due vini. Il primo, imbottigliato dal 1999, è il Cyane e il nome di una ninfa sposa perfettamente il portamento e la leggerezza di un vino che ha un grado alcolico sorprendentemente inferiore a quelli di Chambave: il 2022 risplende d’eleganza mediterranea (i dettagli floreali, la nuance di albicocca, il soffio delle erbe aromatiche) come l’Ortigia. Il secondo, più recente, è il “macerativo” Damarete (che era la sposa del tiranno di Siracusa Gelone e pure del fratello Polizelo). Il 2022 ha colore intenso, un’estrazione calibrata che odora di muschio, albicocca, erbe mediterranee e un finale di origano ed elicriso. Nella contrada Buonivini di Noto, gioiello barocco, il sole, le terre calcaree, una viticoltura integrata e una vinificazione in acciaio poco interventista permettono al Muscatedda di Pierpaolo Messina della cantina Marabino di restituire la macchia mediterranea dove nasce: il 2022 ha un frutto pieno e pescoso, con buccia di albicocca e zesta d’agrume, ma bisogna oggi aprire un 2021 per immergersi nell’orzo e nelle erbe aromatiche, nell’elicriso e nell’eucalipto, nella persistente freschezza di una menta balsamica. Pantelleria L’isola del vento, l’atollo del Mediterraneo, il regno dei quattro elementi e del Passito di Pantelleria è il luogo esclusivo dello zibibbo, che cresce su alberelli rannicchiati dentro le buche di sabbie vulcaniche per proteggersi dalle correnti d’aria prima che dal sole. Il primo a intuire le potenzialità di questo vitigno come bianco secco fu Marco De Bartoli, che così lo vinificò nel 1989. E ancora oggi, nelle mani dei figli Renato, Sebastiano e Giuseppina, il Pietranera seduce in gioventù (2022) per quel divenire di pietra pomice, di buccia di albicocca e di sandalo, ma sbalordisce dopo solo un paio d’anni (2020) per il portato aromatico di roccia vulcanica, fiori gialli (ginestra, elicriso), menta balsamica, per la vibrazione salina e la succosa persistenza iodata. Tra Bassa Atesina e Oltradige Ultimo esponente di sette generazioni legate alla viticoltura dal 1880, Franz Haas – vignaiolo di talento, produttore conosciuto per la sua ossessione per il Pinot Nero, personaggio carismatico – se n’è andato prematuramente un anno e mezzo fa all’età di 68 anni dopo 36 alla guida dell’azienda familiare di Montagna, tramandata di generazione in generazione al primogenito, chiamato sempre Franz. Lo ricordiamo qui con uno dei suoi vini meno noti ma non meno riusciti. Il Moscato Giallo 2022 freme di terpeni, è generoso, morbido, avvolgente, libera sensazioni di pesca e albicocca che nel 2021 si tramutano in toni più esotici (la maturità dell’ananas, l’acidità del mango), quasi “barocchi”, di un barocco asburgico, decorativo e luminoso, virtuoso senza mai perdere di vista la necessità della forma e la finezza del disegno. Dalle sponde del lago di Caldaro e dalle mani sagaci di Helmuth Zozin, direttore della tenuta Manincor del conte Michael Goëss-Enzenberg, arriva un’Alto Adige Moscato Giallo da vigne biodinamiche che è sintesi di rigore tecnico (dodici ore di macerazione in pressa, fermentazione spontanea in legno e acciaio, cinque mesi sui lieviti) e spirito aromatico: il 2022 è silloge varietale (fiore giallo, pompelmo, noce moscata) dal sorso succoso, tonico, persistente; il 2021 sancisce il trionfo della riduzione applicata a un’annata brillante: sentori di salvia, verzure dell’orto, bosso, agrumi assortiti, elementi minerali, con un sorso giocato sulla sottrazione che è ammaliante e invitante. Colli Euganei Denominazione ancora poco conosciuta nonostante la bellezza del suo paesaggio, i Colli Euganei si sviluppano nella parte sud-occidentale della provincia padovana, stagliandosi sulla pianura circostante con le inconfondibili silhouette delle sue colline vulcaniche chiamate “monti”. L’eclettico moscato giallo (produce con fervore bianchi secchi, spumanti e passiti) predilige le matrici sedimentarie dei terreni, più diffuse nella parte sud del territorio, anziché quelle vulcaniche del settore nord. Il Colli Euganei Fior d’Arancio Sirio della cantina Vignalta ha una data d’origine – il 1990 – che ratifica il ruolo pionieristico di questo bianco, una “creazione” visionaria di Lucio Gomiero, oggi, insieme ai soci Cristiano Salvagnin e Mario Guzzo, come ieri al timone dell’azienda di Arquà Petrarca. Il profilo embrionale di un 2022 ancora giocato sulle sottrazioni aromatiche si dipana in un 2021 dalle dominanti gialle (nel colore, nei fiori, nel frutto) e in un 2019 che sa di buccia d’arancia, di camomilla, perfino di pietra pomice. Il Colli Euganei Fior d’Arancio Secco di Quota 101, che la famiglia Gardina (papà Roberto con le figlie Silvia e Roberta) produce a Luvigliano di Torreglia, ha uno slancio apollineo in gioventù (2022) scandito da pomi e albicocchi, cui basta uno (2021) o due (2020) anni di affinamento in bottiglia per aumentare l’impatto del frutto e infine elargire quell’effluvio di menta, timo, rosmarino e quella ronde balsamico-minerale che è il lato più accattivante di questo bianco nel tempo. Sul monte Versa, nell’areale di Cinto Euganeo, Giovanni Bressanin dell’azienda Monteversa produce dal 2013 il Primaversa, crasi di Primavera e Versa, dove il moscato giallo trova la propria sublimazione nella rifermentazione in bottiglia, che amplifica anziché comprimere la naturale esuberanza di questo vitigno. Il 2022 è silloge varietale (il fiore d’arancio, le erbe aromatiche, il turgore del frutto giallo, le note di pompelmo) dentro una carbonica crepitante; nel 2021 il vulcano sembra esplodere in mezzo ai gelsomini, agli agrumi, al rosmarino; nel 2017 divampano la freschezza della menta e l’ariosità della ginestra, della calendula, dell’erba Luigia, mentre il ventaglio balsamico si apre a raggiera; nel 2015 c’è un tripudio di alloro, menta, arbusti, fieno… Oggi il bianco aromatico viene sempre più servito secco, in versioni spesso estasianti, di cui si fornisce qui un percorso plurale di geografie e stili. MALVASIA Monembasia, Monenvaxia, Monemvasia e infine Malvasia: dalla città del Peloponneso direttamente al regno della Serenissima. La famiglia delle malvasie non è meno folta e composita (ne sono state censite ben 17 diverse varietà e le sue diramazioni arrivano in quasi tutte le regioni italiane) di quella dei moscati (anche dal punto di vista cromatico), ma è senz’altro la più eterodossa: se i moscati mantengono sempre la loro verve aromatica, le malvasie possono invece avere una carica lieve (come avviene nella malvasia bianca di Candia, in quella chiantigiana o istriana), più intensa come nella malvasia di Lipari o decisamente più accesa come nell’eccellente malvasia di Candia aromatica, ampiamente diffusa nei Colli Piacentini. Colli Piacentini La viticoltura ha qui origini antiche, gloriose e la malvasia di Candia aromatica – vitigno eclettico (genera nelle mani giuste compiute versioni ferme, frizzanti e passite) di probabile origine greca (Candia era l’antico nome dell’isola di Creta) – è uno dei fiori all’occhiello delle quattro bellissime e misconosciute valli (Val Tidone, Val Trebbia, Val Nure, Val d’Arda) del territorio. Prima di addentrarsi nel Piacentino, una tappa rapida quanto doverosa in un territorio confinante, quello di Rovescala, che ricade in Oltrepò Pavese. Su queste colline la cantina Martilde di Antonella Tacci e Raimondo Lombardi produce infatti una versione ammaliante a fermentazione spontanea e macerazione fino a novembre (nei primi anni addirittura fino alla luna di Pasqua) chiamata Dedica (la loro gatta nera, riprodotta in etichetta). Il 2022 apre orizzonti quasi imprevedibili: tra scorza d’arancia, kumquat ed erbe officinali affiora quell’apporto salmastro, che qui non dovrebbe esistere e che la malvasia piacentina miracolosamente estrae quando viene “forzata” con macerazioni o appassimenti. Nel 2021 tra le note iodate, l’albicocca secca e il rosmarino sembra perfino di essere a Pantelleria, mentre con il 2019 – il tannino, il tannino! – le erbe aromatiche si aprono a ventaglio e le sensazioni insulari sembrano immergerci in un bagno onirico-mediterraneo… La macerazione è forse dionisiaca? A Ziano Piacentino, comune tra i più vitati d’Italia, Enrico Sgorbati di Torre Fornello produce il Colli Piacentini Malvasia Donna Luigia da tre vigne diverse per età, esposizione e pendenza, vinificandole separatamente e facendo fermentare e maturare (per 9 mesi) il vino in legno e acciaio. Il 2020 sfoggia le erbe aromatiche-amaricanti della malvasia in un sortilegio di menta, in un senso di foglia, radice e arbusto, in un finale con un tannino che segna il territorio e allunga il carattere del sorso. Imbottigliato dal 2002 nella tenuta La Stoppa di Rivergaro, l’Ageno di Elena Pantaleoni (fermentazione spontanea, macerazione di quattro mesi, zero solforosa e zero filtrazione) è stato uno dei primi portabandiera del “vino naturale” emiliano e italiano. Pur con le fisiologiche sfumature del caso, il 2020 e il 2019 viaggiano all’unisono: colore arancio opalescente, naso di umori balsamici e agresti, di arbusti, erbe aromatiche e quintessenze macerative, bocca succosissima, con un tannino senza compromessi che incide e rilancia, un alcol incorporato che produce ebbrezza, un grado zero della radice aromatica che estrae il sale della terra. Prodotto dal 1991 a La Tosa, nella campagna di Vigolzone, il Colli Piacentini Malvasia Sorriso di Cielo di Stefano Pizzamiglio è stato un vino rivoluzionario, il primo a cimentarsi con la versione ferma e secca in un territorio che concepiva la Malvasia come mossa e dolce. Alla luce del caldo dell’annata, il 2022 è sorprendentemente brillante, merito di piogge locali e cruciali: che levità e che eleganza nel tratto aromatico! Quasi una danza di frutti ed erbe, con una sapidità che porta via la mente e una tensione che è persistenza. Il 2021 comincia a diffondere quella menta, quel balsamo effusivo, quelle erbe aromatiche che allietano il palato e invogliano i sensi. Il 2018 è tempesta balsamica, furore di suffumigi. Lipari Nelle Lipari, costellazione di sette isole di origine vulcanica, l’omonima malvasia ha tratti peculiari che la differenziano dalle altre varietà della famiglia. Pare sia stata introdotta dai primi coloni greci nel VI secolo a.C., ben prima dunque che i veneziani diffondessero quella di Monemvasia nel XIII secolo. Milanese d’origine, Mauro Pollastri ha messo piede per la prima volta sull’isola di Vulcano (l’unica dell’arcipelago insieme a Stromboli ad avere un cratere ancora attivo) all’età di 12 anni: veniva qui a trascorrere le vacanze con i genitori. Alla fine degli anni Novanta il padre Francangelo acquista dei terreni abbandonati e nel 2004 pianta la prima vigna. Dal 2011 Mauro prende in mano le redini aziendali, ristrutturando la vecchia cantina di fronte al mare. Oggi Punta Aria ha anche un agriturismo e una spiaggia attrezzata. Dalle uve della vigna del Gelso nasce la Malvasia Francangelo: accarezzato da note di albicocca, il 2022 è ancora un vino in nuce, ma basta andare indietro di un anno con il 2021 per ritrovare un vino che restituisce con i suoi sentori di capperi, di erbe aromatiche e di note salmastre tutto il carattere dell’isola.