Non è da oggi che sul panorama nobiliare della ristorazione nazionale si addensano nubi basse. Tuttavia, non è un pettegolezzo che la questione si stia aggravando. Manca il personale educato al cimento. Mancano le idee, fuori e dentro la cucina. Manca, ancor di più, il mestiere tra i fornelli. Affermerei con dolore che la razza dei cuochi si sta estinguendo, se, per nostra somma fortuna, non avessimo in cambio una infinità di creatori, di innovatori e giocolieri: chef di immaginifico ingegno, che trasformano materia e ricette con la forza del pensiero. Menti insonni che trascorrono la notte con la guida Michelin sotto il cuscino. Bravissimi. Ammiro il loro ego più quanto apprezzi le opere.
Il guaio, però, è che nel frattempo scendono gli incassi e sale, nel vaso sottostante, il carico delle spese, come la sabbia nella clessidra.
Per una somma di ragioni economiche e culturali, la cosiddetta “alta cucina” è un giocattolo sempre più costoso e improduttivo. Sulla spinta di questa consapevolezza contabile sorgono nuove soluzioni, come la ristorazione “pop up”. Locali a tempo determinato, con data di scadenza premarcata.
La formula è più antica che recente, a dirla tutta. Qualcuno, in giro per la rete, la colloca negli anni Sessanta, con geniale sforzo di fantasia. Ma la verità è che nasce nella notte dei tempi: vendere cibo in un contesto provvisorio accade da sempre, dagli ambulanti d’ogni epoca, ai ristoranti stagionali.
Le autentiche novità di questi ultimi anni sono due. 1) In passato, non sentivamo il bisogno di chiamarli “pop up”. Termine che, per altro, si associa istintivamente all’odiosa esplosione di messaggi pubblicitari nei siti web. 2) Il modello non attecchisce soltanto in fasce subalterne del mercato gastronomico. Ora, si misurano sulla breve distanza anche chef d’alto bordo e marchi industriali di rilievo.
È un bene? È un male? Nessuna delle due ipotesi. È soltanto un segno dei tempi.
Ma anche in questo caso, dobbiamo dividere il tema in capitoli.