Marchesi si nasce. Morello Pecchioli La storia lo testimonia: ci sono Marchesi che non riescono a tenere le mani al loro posto, restandosene tranquilli nelle loro dimore (se le hanno) a godersi cani, cavalli, terre e nobildonne. No, a loro piacciono le rivoluzioni, vogliono ribaltare il mondo anche se ne fanno parte in posizione privilegiata. Prendiamo ad esempio Marie-Joseph-Paul Motier, marchese di La Fayette. Nel 1777 andò a menar le mani a fianco di George Washington nella rivoluzione americana contro gli inglesi; dodici anni dopo s’infilò, lui aristocratico francese, nella rivoluzione del 1789, incitando il popolo alla presa della Bastiglia e organizzando la Guardia Nazionale con tanto di coccarda tricolore repubblicana. A 73 anni salì sulle barricate della rivoluzione parigina del 1830. Il nuovo re, Luigi Filippo, pensionò il bollente nobiluomo che lo incitava a sostenere i moti carbonari in Italia e in Spagna. Veniamo a Camillo Benso di Cavour che i libri chiamano conte – e lo era – ma che apparteneva al ramo dei Benso marchesi di Cavour che cent’anni prima della sua nascita acquistarono il feudo di Grinzane, titoli annessi. Con quel po’ po’ di terra che aveva non poteva starsene tranquillo a fare il latifondista ricco e beato? Macché! Ci rimise tranquillità e salute – morì a soli 51 anni – per rivoluzionare la penisola, rompendo le scatole a Francesco Giuseppe imperatore d’Austria, Pio IX, papa regnante, e ai Borboni. Vide l’unità d’Italia (marzo 1861), ma se la godette per meno di tre mesi: in giugno morì. C’è un terzo Marchesi che prendiamo in considerazione, Gualtiero. Non aveva un goccio di sangue blu nelle vene, non un titolo, solo un cognome altisonante. Papà e mamma erano piccoli borghesi, ristoratori e albergatori in grado di garantirgli buone scuole e un tranquillo futuro di oste milanese seguendo le orme di papà Giuseppe: ris giald, oss büs, la costoletta che gli piaceva così tanto… Declinò il certo per la rivoluzione. Voleva ribaltare la cucina italiana che vedeva andare sempre più alla deriva dopo la guerra e che negli anni Settanta navigava su un bonaccioso mare di panna, tra scogli di scaloppine, dove tra onde di besciamella e gelatina, nuotavano finti pesci modellati con patate lesse, ben premute per dare forma ittica al composto, tonno in scatola, capperi e sottaceti per completare l’illusione. Era una cucina di gamberetti in salsa rosa, ignara del passato, del territorio e col paraocchi sul futuro. Su questa cucina, già lavorata ai fianchi da Orio Vergani e dalla sua Accademia Italiana della Cucina, si abbatte l’uragano Marchesi. Gualtiero, come altri traghettatori del passato (Maestro Martino da Como, XV secolo, Pellegrino Artusi, XIX secolo) divenne l’alfa della nuova era della cucina italiana: a.M., p.M., ante e post Marchesi. La rivoluzione è ancora in corso anche se lui è morto sei anni fa. È stato il primo ad andare avanti e il primo a tornare indietro quando ha capito che anche le rivoluzioni vanno fermate per non sfociare nel nulla che avanza. E dopo aver sperimentato ogni tecnica è tornato alla semplicità, alla purezza degli ingredienti, al territorio. In qualche elissi del dna di Gualtiero Marchesi c’era un cappello di cuoco prima ancora che il fiolett venisse al mondo. “IO sono un cuoco”, puntualizzerà per tutta la vita orgoglioso, facendo apparire il pronome tutto maiuscolo. Amava l’italiano e non le mode esterofile. Non voleva essere chiamato chef: gli faceva venire l’orticaria. Mamma Cristina, una donna bella, elegante, ma pratica e risoluta (quando il figlio lasciò la scuola superiore lo spedì subito in Svizzera a far pratica di cucina e sala) prese il bebè venuto alla luce, lo adagiò nella prima culla che trovò sottomano: un’ampia casseruola. Racconta Gualtiero in Marchesi si nasce: “Sono stato scodellato in una capace casseruola di rame imbottita di panni morbidi. Era il 19 marzo del 1930 e allora i parti in casa erano la norma. Solo che la camera nella quale venni al mondo era una stanza del Mercato, l’albergo con annesso ristorante gestito dai miei genitori che stava proprio di fronte al mercato ortofrutticolo di via Cadore”. Buone scuole, l’istituto Gonzaga, poi la guerra. La famiglia lasciò il Mercato (albergo e ristorante) e sfollò a San Zenone Po, il paese d’origine dei Marchesi. A fine guerra tornò a Milano, sempre al Mercato dove papà Giuseppe si fece un punto d’onore di avere bravi cuochi e una cucina milanese tradizionale, che piaceva ai commercianti d’ortofrutta della vicina piazza. Sempre in Marchesi si nasce il grande cuoco confessa l’amore per la cotoletta del papà. “La cuoceva da artista”. Il gastro rivoluzionario, chiuso ancora nel bozzolo in procinto di esplodere, confessa nel Codice Marchesi che amava quella cucina tradizionale: risotti, ossibuchi, rustin ’negàa, cotechini, brasati… Ma quando in petto gli divampa la passione, quando gli arriva la chiamata da Oltre il fornello, il Mercato diventa un laboratorio, un ristorante double face: da una parte fucina di idee, ricerca del nuovo, impiattamenti estetici, piatti che suonano; dall’altra la ristorazione consueta che piace tanto ai mercanti d’ortofrutta: pasta paglia e fieno, carbonara, pappardelle al sugo di lepre e vai con la tradizione. “La tradizione era la famiglia, il Po, era la base di tutto”, racconta Paolo Marchi, giornalista, scrittore, gastronomo, “ma non vi si adagiava, andava oltre perché la conosceva così bene da non averne più bisogno. Marchesi cercava la vera innovazione, il mondo nuovo della cucina italiana. Non creava i piatti solo per il gusto di farli strani, ma per presentare opere d’arte. Era amico di Lucio Fontana, l’artista dei tagli, di Enrico Bay, di Pietro Manzoni, quello del barattolo con la Merda d’artista. Amava la musica e il canto quasi più della cucina”. “Quasi”, però. La cucina cosse lui prima di essere cotta da lui. Abbandonò le lezioni di pianoforte che stava seguendo con Antonietta Cassisa, bravissima pianista di cinque anni più giovane di lui e che lui, tra un bemolle e un diesis ammirava e corteggiava. Un giorno Antonietta lo scoprì distratto, si arrabbiò e gli chiese a cosa stesse pensando. “Al ristorante”, rispose. Fu l’ultima lezione: “Abbandonai il corso, sposai Antonietta e mi dedicai completamente alla cucina”. Riprende Marchi: “Era un perfezionista, di idee e di cultura. In un suo piatto c’è tutto: qualità degli ingredienti, sapori, gusto, arte, musica, la grande cultura. Con i suoi allievi era assolutamente aperto. Amava dire: ‘Il miglior insegnamento è l’esempio. Se lo dai giusto vale più di mille parole’. A quasi quarant’anni lasciò il ristorante della famiglia per andare a fare pratica nelle migliori cucine di Francia. Tra le altre fu in quella dei fratelli Jean e Pierre Troisgros a Roanne. Ci rimase otto mesi dopo di che disse loro che se ne tornava a casa. Gli chiesero perché e lui serafico rispose che aveva imparato tutto quello che c’era da imparare. ‘E cosa hai imparato?’ ribatterono con un sorrisino beffardo. ‘Vedrete, li sfidò. E se ne tornò in Italia, dalla moglie e dalle due figlie che aveva lasciato un anno prima e alzò immediatamente le barricate della nuova cucina italiana”. Insomma, qual era il segreto che aveva appreso dai Troisgros? “Avevo imparato la lezione della semplicità e ne feci una delle regole principali della mia cucina”. Mariella Tanzarella scrive di cibo su Repubblica da 45 anni (ha anche un blog molto seguito: Raccontami una tavola) era particolarmente vicina a Marchesi. “È sempre stato davanti a tutti capendo molto prima degli altri cosa sarebbe successo. Ha compreso subito che bisognava innovare, non per stare a passo con i tempi, ma per anticiparli. È andato molto avanti. Ha rivoluzionato la cucina italiana. E dopo averlo fatto, dopo aver acquisito tutto il sapere e le tecniche di cucina, ha intuito che bisognava tornare indietro. È stato il primo ad andare avanti e il primo a tornare indietro quando ha capito che anche le rivoluzioni vanno fermate per non sfociare nel nulla che avanza. Ci vuole coraggio e onestà per fare le scelte che ha fatto lui. Dopo aver sperimentato ogni tecnica è tornato alla semplicità, alla purezza degli ingredienti, al territorio”. Come capopopolo non era un uomo facile, dice Marchi, anche perché era molto ironico, dote dei personaggi più intelligenti, e quindi un po’ ostico da trattare. È lo stesso ritratto che ne dà un altro giornalista, gastronomo e scrittore, Davide Paolini: “Marchesi era un grande personaggio, molto curioso, dispettoso perfino: nelle discussioni era molto bravo a suscitare polemiche per dilatare l’argomento a 360 gradi. Ma era una persona straordinaria, molto profonda. La cucina era molto originale, distante da tutte le scuole, da francesi e italiani, era una cucina non facile, concettuale, rivoluzionaria. I suoi piatti rimandavano a riferimenti artistici. L’arte era la sua seconda passione. Sembravano opere facili, interpretabili, ma no, c’era dietro un retropensiero profondo, a differenza dei piatti di molti cuochi che vanno per la maggiore oggi, ma che non sono capaci di avere una visione globale di quello che fanno. In un primo momento ha seguito l’avanguardia? Non lo so. Può darsi ma so che non si è mai adagiato. Rivoluzionario, ma sempre pronto alle novità. Tornava dai viaggi ricco di ispirazioni. Ricordo che tornò dal Giappone con tre piatti in testa che rielaborò a modo suo. Non erano più giapponesi e nemmeno italiani se non per la cultura che Marchesi aveva in sé. Trovava ispirazione ovunque, non è mai stato un copiatore. Rifuggiva dalle copie, seguendo la sua ispirazione, mescolando nel piatto arte, pittura, scultura, musica. Era amico di Aldo Calvi che conosceva dalla giovinezza. A diversi pittori dedicò piatti. Andava a vedere le mostre ed elaborava i piatti. Mi fece imboccare la rivoluzionaria via italiana alla pasta con un piatto incredibile: lo spaghetto freddo al caviale. Un’altra creazione straordinaria fu il raviolo aperto. Divertente la cotoletta tagliata e ricostruita nel piatto spezzettandola, una sua boutade. Si ispirava alla tradizione ma non era tradizionalista. ‘La tradizione esiste, diceva, e la rispetto, ma non la copio’. Anche il raviolo aperto, se vogliamo, è parte dalla tradizione, ma è una totale innovazione, e ben riuscita. Lo spaghetto freddo è una via intelligente a un altro modo di presentare la pasta. Marchesi era curiosissimo di tutto. Per mesi mi ha portato a mangiare in una trattoria pugliese. Prendeva pezzetti di cibo dal mio piatto con le mani. Studiava con le mani. Aveva il piacere di gustare, di lavorare con tutti i sensi, anche col tatto”. Enrico Dandolo, marito di Simona Marchesi, primogenita di Gualtiero ha raccolto l’eredità culturale del suocero e l’impegno di mantenere, per quanto possibile in un mondo in continua trasformazione, le idee del Maestro. È l’Amministratore delegato del Gruppo Gualtiero Marchesi. Laureato in Scienze dell’Informazione, si occupa di tutto quello che riguarda la cucina marchesiana, dalla consulenza alla formazione di cuochi, dalla ristorazione (ha avviato ristoranti a Milano, Roma, Londra, Parigi, Cannes e Kobe) alla ricerca tecnologica collaborando con varie università e istituti di ricerca, all’editoria gastronomica. È un bel po’ fare per tener alto il nome del Maestro? “Sì. L’eredità di Marchesi, la sua personalità sono talmente uniche che non poteva passare il testimone ad alcuno. Non diede mai la responsabilità a un cuoco di seguire i suoi passi. Li lasciava liberi di camminare sulle loro gambe e creare secondo la loro passione. Anche l’Accademia Gualtiero Marchesi, nata col compito di formare i cuochi secondo il pensiero marchesiano, si muove secondo le sue idee. Ognuno ha il suo gusto, amava ripetere”. E come la mettiamo col palato assoluto? “Già, coniò questo concetto quando trovò un allievo che aveva il palato come il suo, Fabrizio Molteni, ora chef a La Speranzina di Sirmione. Marchesi non volle trattenerlo quando Molteni manifestò il desiderio di andarsene. Io non ho il palato assoluto, ma avendo fatto 27 anni con Marchesi ce l’ho allineato col suo. Praticamente sono il custode dei suoi sapori, assaggio continuamente i piatti della brigata per vedere se corrispondono a quello che voleva Marchesi o si tratta di un diversamente buono. Inoltre, stiamo pubblicando col Corriere della Sera 700 ricette di Marchesi: è un omaggio alla sua storia e alla storia della cucina italiana”. Dandolo, un bell’uomo con un nome veneziano importante (potrebbe risalire al doge Enrico Dandolo che, cieco e 97enne, conquistò Costantinopoli nel 1204), dirige l’Accademia Gualtiero Marchesi che si occupa dell’alto perfezionamento dei cuochi. “Proponiamo 40 anni di cucina sempre in chiave marchesiana rispettando il gusto dei piatti. Attenzione, però: parliamo di una cucina costante, non fossile. Anzi è sempre in cerca di nuove emozioni. Com’era Marchesi in famiglia? “Molto attento alla moglie e alle figlie, Simona e Paola. Idealmente era sempre presente, ma in pratica non così tanto. Simona aveva iniziato ad avvicinarsi al ristorante, occupandosi di sala e vini, Paola frequentò la cucina, ma la passione per la musica ereditata dalla mamma prevalse”. Qualcuno ha parlato di un Marchesi ironico, fin troppo provocatore, mai arrendevole sulle sue posizioni, è vero? “Il lato bambino non lo ha mai perso. Manteneva il lato giocherellone, citando spesso Paul Bocuse che amava fare scherzi: ‘Rendono più leggera la vita’, diceva... Non aveva timore di presentare ai clienti le sue creazioni, per quanto provocatorie. A una signora che lamentava il sangue nel piccione disse che quella era la corretta tecnica di cottura e rifiutò di cambiarle il piatto. Soltanto a Gillo Dorfles, un amico con vent’anni più, di lui permise di avere la forchetta per mangiare il risotto. Tutti gli altri dovevano mangiarlo col cucchiaio”.