Inizia con la T
e finisce per E

Valerio Massimo Visintin

E se approfittassimo del Natale per dire che in cucina la tradizione non esiste? Che esistono soltanto abitudini di lungo corso più o meno antiche e protratte nel tempo? Se cambiassimo nome a quel bagaglio, lo alleggeriremmo?

Pensiamoci. Sarebbe un deterrente a basso costo per osteggiare due condizionamenti antitetici, ma egualmente malsani: la tutela spinata delle tradizioni elette a totem della società gastronomica e la trasgressione coatta delle stesse, da parte degli chef da copertina.

Partiamo da chi difende in armi i precetti della tradizione, come se fossero dogmi canonizzati da un’entità superiore. Se facessimo uso di un termine laico, sgonfieremmo il fideismo isterico di chi, per dire, ti scomunica perché hai ordinato la pizza con l’ananas o hai condito la amatriciana con la pancetta, dove è d’obbligo il guanciale. Chiamiamola “usanza” e il mondo ci sorriderà.

Passeremmo dagli strali a un bonario ammonimento.

Da: “La pancetta? Tu sei completamente pazzo??? La TRADIZIONE impone che la amatriciana si debba fare con il guanciale!”

A: “Sì, vabbè, l’usanza è di metterci il guanciale. Ma va benissimo anche la pancetta, se preferisci”.

Se innescassimo questo scambio semantico, parlando di semplici usanze – amabili, fondanti, ma vive e non scolpite nella pietra – toglieremmo di mezzo anche l’altro tic nervoso della cucina contemporanea.

Quello che si sostanzia in due parolette replicate ossessivamente da tutti gli chef di qualche ambizione: tradizione-innovazione.