Il Trentino del vino è da sempre legato al mondo tedesco e austriaco. Quando, nel 1874, la Dieta regionale tirolese di Innsbruck decise di attivare a San Michele all’Adige una scuola agraria con annessa stazione sperimentale guidata dall’austriaco Edmund Mach, i vitigni presenti erano davvero tanti. Molti di questi, come garganega e bianchetta trevisana, erano frutto dell’influenza veneta dei secoli precedenti. È stato con l’attivazione della scuola che i vitigni tedeschi e francesi hanno iniziato a dare ordine e soppiantare le vecchie varietà, con riscontri quasi sempre molto positivi. Negli anni sono dunque andate perse moltissime varietà e anche la nostra azienda, una trentina di anni fa, ha tentato un recupero della tradizione di un tempo. Nei nostri vigneti in Val di Cembra abbiamo piantato negrara trentina e groppello della Val di Non, due vitigni tardivi, poveri, che faticavano ad arrivare a maturazione. Per dare loro un po’ di spinta abbiamo pensato di aiutarli con l’impianto di pinot nero dalla Francia e di zweigelt e blaufränkisch dall’Austria e Germania. Con un blend di questi cinque vitigni abbiamo dato vita al nostro Besler rosso, ma i risultati sono stati davvero deludenti. Nonostante la spinta dei vitigni stranieri il vino non è mai stato all’altezza delle aspettative. A dare il colpo di grazia è poi arrivata la fillossera, che ha sfruttato la nostra scelta di un impianto a piede franco, confidando nella natura sabbiosa dei terreni. Da circa 8 anni in quei terreni sono rimasti solo gli internazionali. Ci siamo fatti prendere la mano dal recupero storico, ma devo confessare che dal punto di vista enologico è stato davvero triste, un fallimento. Con gli anni ho capito che con quasi tutti gli autoctoni ci sono sempre dei limiti importanti. Penso alla nosiola ma anche al marzemino, che ha costretto molti vignaioli a ricorrere all’appassimento per dargli una marcia in più, anche se in realtà i cambiamenti climatici e l’aumento delle temperature in questo stanno aiutando. È innegabile che in Trentino il ruolo dei vitigni internazionali è stato davvero importante.
Basti pensare all’arrivo nel 1902 dello chardonnay ad opera di Giulio Ferrari: un passo fondamentale per creare quello che oggi tutti conoscono come Trento DOC. Ma anche alla nascita nel 1958 del primo bordolese italiano, a opera sempre dell’Istituto Agrario di San Michele all’Adige. Il resto è storia: Fojaneghe e San Leonardo, per fare due nomi, sono vini che hanno lasciato il segno.
Resta un caso a parte quello del teroldego, vitigno più nobile, più adatto alla realizzazione di grandi vini. E padre, insieme al lagrein, di un nuovo pazzesco vitigno ancora senza nome, messo a punto sempre a San Michele, e destinato secondo me a segnare la storia dell’enologia trentina nel prossimo futuro. Ma se usciamo un attimo dal Trentino, devo dire che tanti errori sono stati fatti anche in direzione contraria. Penso al caso dell’abbandono delle varietà autoctone al Sud per fare spazio ai vitigni internazionali. Prova ne è che stanno tornando indietro, reimpiantando le varietà tradizionali e cercando addirittura vitigni nelle isole mediterranee per combattere il sempre maggior caldo e la vendemmia sempre più anticipata. Il clima è fondamentale e lo sarà sempre di più: impossibile applicare uno schema precostituito senza tenerne conto. Così come è importante pensare a un futuro dove i PIWI dovranno avere un ruolo fondamentale, sia per adattarsi ai cambiamenti, sia per portare avanti un’agricoltura più pulita e più sicura nel lavoro in campo: meno trattamenti significano meno chimica, ma anche meno infortuni e morti sul lavoro. Un mondo in continua evoluzione, dunque, il nostro, dove è necessario adattarsi senza fermarsi mai, affidandosi alla ricerca e alla curiosità. Solo così continueremo a fare grandi vini in Italia.
