Esistono essenze volatili che, come nel vino, sono capaci di far uscire mondi e incastrano i sentori e i sapori tra il bene e il male. Ogni sentore è una notizia, vera o falsa che sia, di ciò che il percorso che ha trasformato l'uva in vino racconta. Il lavoro dei lieviti, se abbandonati, lascia spazio ai batteri, e ogni volta che il nostro linguaggio si avventura a raccontare qualcosa di “volatile” come una sensazione, rischia di schiantarsi come l'oceano sulle rocce, lasciando spazio alla terra.
La lingua del vino è lontana dal vino, è lontana dalla terra, è vicina agli uomini e alle donne che la abitano per provare a sopravvivere nel marasma delle sensazioni. Noi abitiamo il linguaggio. Ogni parola è una casa che rendiamo o meno accogliente in base a come sappiamo utilizzarne gli spazi, abitandoli e vivendoli. Ogni luogo dove il linguaggio necessita spazio è sostanzialmente parte di un'unità abitativa, dove le persone che vi entrano devono, o meno, trovarsi a proprio agio.
Il linguaggio del vino è l'abitazione del racconto di una sostanza, distante dall'uomo e vicina alla terra, dove noi cerchiamo di trovare spazio. La complessità del lavoro della terra e del suo successivo trasformarsi in vino, fa parte delle fondamenta del nostro vivere il mondo del vino. Chi si occupa di tale materia deve, o dovrebbe, fuggire la semplificazione della complessità nell'ottica di una semplificazione del linguaggio; restando nella metafora, deve far trovare la casa pulita agli ospiti senza fare in modo che all'interno ci siano mobili che, solo urtati, potrebbero rompersi. Semplice non vuol dire meno complesso: semplice significa corretto e preciso.
Studiare il vino, l'uva e la terra, richiede impegno costante e spesso difficile da sostenere specie se non si è parte attiva nel processo produttivo. Basta guardare come Instagram riesce a esporre certe immagini di calici lanciati roteando forte a far uscire il vino per capire che il contenitore ha superato il contenuto. Lungi da me e da queste parole
pretendere di giudicare la comunicazione e come essa trovi spazio nelle abitazioni, quindi linguaggi, legate ai social che esistono e resistono alle generazioni. Il tema è tutt'altro. Ogni luogo ha il proprio linguaggio e ogni parola ha il proprio luogo, come una scarpa per il piede, che permette al discorso di continuare.
Le parole nel vino stanno cambiando, veloci, forse troppo, ma non importa. Smettiamola di accanirci sulle parole e cominciamo a fare i Sommelier, persone preparate che conoscono i processi produttivi e i produttori, che vogliono e sanno degustare, che non giudicano, ma pesano il valore del lavoro nella terra, del lavoro enologico, che si interrogano senza dare risposte e che non smettono di darsi alla domanda. Basta buttare vino nelle vigne, basta scegliere il proprio corpo o la propria immagine per far finta di voler bene al vino. Prendiamo posizione, da professionisti, facciamoci magari anche dare del boomer in certi casi, ma ricordiamoci, da abitanti del linguaggio, di essere noi a utilizzare i mezzi che il linguaggio offre, invece di farci utilizzare dal mezzo stesso.
Questo vale per ogni azienda, ogni Sommelier, ogni appassionato del mondo del vino: è questo l'appello a vivere la grande complessità che è insita nella natura, la stessa complessità che vorremmo fosse applicata a noi quando veniamo giudicati sommariamente così come sommariamente giudichiamo un vino.
Il futuro delle parole del vino passa attraverso il minor utilizzo delle parole, in funzione di uno studio un approfondimento e un'umiltà che, ahimè, si capisce sempre troppo tardi. Volevo parlarvi degli hashtag, delle tendenze, delle parole più ricercate sui social e sulle piattaforme, ma lo farò magari un'altra volta. Se vuoi bene al vino cura le tue parole. Se vuoi bene alla terra, cura le tue parole. Se vuoi vivere in equilibrio cura la tua complessità e dai accesso alla complessità, che ti abiti, che abusi di te e del tuo essere perché ogni vino insegna la vita che accade e che resiste al tempo.